Ti ricordi?
Le gioie della “rete” si dividono pressappoco in due grandi categorie, corrispondenti a due opposte scuole di pensiero: c’è chi comunica e “condivide” sui “social network” e attraverso le varie “app” e chi, invece, in funzione del tutto a-social, va in cerca del proprio passato.
Le gioie della seconda categoria non consistono, sia chiaro, nel setacciare finanche gli anfratti del “web” per ritrovare persone di cui si è persa ogni traccia e rievocare insieme fatti e luoghi ormai andati: per quello, eventualmente, ci sono già i “social”; no, non sono gli esseri umani ciò che hanno in mente questi viandanti del “fu”. Essi vogliono non parlare con qualcuno, piuttosto rileggere gli articoli di giornale, rivedere i programmi televisivi, riascoltare le canzoni, le musiche o le trasmissioni radiofoniche, riscoprire insomma gli oggetti smarriti che, nel bene e nel male, hanno una responsabilità verso il loro presente e quel che sono diventati.
Così ieri sera, in un dopo cena trascorso a scovare testimonianze di gruppi musicali minori della “new wave” italiana degli anni ’80, mi sono imbattuto in un estratto audio di un programma radiofonico dell’epoca: Stereodrome. In quel periodo, la programmazione FM della Rai, dal primo pomeriggio fino a tarda notte, si distingueva da quella propria dei canali tradizionali Radiouno e Radiodue, che continuava sulle onde medie (per chi sa ancora cosa sono) dando spazio alle stazioni “giovanilistiche” note coi nomi di Rai Stereouno e Rai Stereodue, cui si aggiungeva, dalla mezzanotte all’alba, un meraviglioso prolungamento chiamato “Rai Stereonotte”. Sembravano quasi reti “volanti”, come i portieri quando da bambini giocavamo a pallone nei cortili, o addirittura radio pirata nel contesto del servizio pubblico che al contrario, nel 1982, aveva ben pianificato questa operazione, con tanto di pubblicità sulle sue reti televisive, per contrastare l’espansione delle radio private attive specialmente dalla metà degli anni ’70 e “sdoganate”, in regime di monopolio pubblico delle telecomunicazioni, da una sentenza della Corte costituzionale. Questo, nonostante allo svecchiamento di un certo modo di fare radio e all’indirizzamento verso un pubblico più “fresco” avesse contribuito la stessa Rai fin dagli anni ’60 inoltrati, e ancor più negli “alternativi” ’70, con trasmissioni musicali come “Bandiera Gialla”, “Per voi giovani”, “Supersonic”, “Popoff”, e momenti di pura trasgressione comica come “Alto Gradimento”, pur dovendo fronteggiare, ancor prima dell’esplosione delle cosiddette radio libere, la concorrenza della frizzante e per nulla ingessata emittente monegasca Radio Montecarlo; e proprio alla straordinaria esperienza di quei programmi musicali, e in particolare di quelli più rivolti all’underground, si rifaceva la nascita di “Stereodrome” nel 1985, in onda all’incirca dalle sette alle undici di sera. Già nel primo pomeriggio, si poteva gustare un assaggio di quel che avrebbe portato la notte con il molto più breve e virante al surreale “Stereocity” di Riccardo Pandolfi, Luisa Mann e Franz Roccaforte, programma che vantava anche un collegamento con la celebre rivista controculturale di fumetti, musica e altro “Frigidaire” attraverso la saga del “tartaro vinilico”, immaginifico morbo che nel futuro avrebbe intaccato i dischi e minacciato quindi la memoria del rock (ma il futuro reale avrebbe poi visto una ben diversa nemesi, come ben sanno i musicofili, nel crollo del mito della presunta eternità del “compact disc” sul piano tecnologico, essendosi dimostrato più “fragile” di quanto si pensasse, e merceologico, per via del trionfo del “download” via internet e un contrapposto ritorno di “larga nicchia” del disco in vinile); poi, scoccate le sette e un quarto, si apriva un mondo nuovo ed eccitante a un adolescente appassionato di musica alla scoperta di sonorità che non fossero solo quelle da alta classifica, o più o meno consuete, accompagnate quest’ultime dalle amichevoli voci dei vari Emilio Levi, Antonella Giampaoli, Clelia Bendandi, Francesco Acampora, Grazia Di Michele ecc. ecc. che si alternavano, di solito a coppie o più, ai microfoni della stereofonia pubblica.
Un differente universo in parte misterioso e senz’altro affascinante esplorava quell’adolescente, guidato da altre voci, più “carbonare” e perciò non meno avvincenti, rispondenti ai nomi di Stefano Pistolini, Enzo Gentile, il simpaticissimo Rupert dall’immancabile intercalare “olé!”, Riccardo Bertoncelli di gucciniana memoria, Luisa Mann, Federico Guglielmi, Marco Basso, Alberto Campo, Mixo, Claudio Sorge col programma-appendice “Rumore” dedicato alle varie forme del rock più estremo (come da titolo, che divenne poi la testata di una rivista nota agli appassionati) per citarne solo alcuni succedutisi negli anni alla conduzione. Sì, era sera, non c’era altro momento per ascoltare, non esistevano la “rete” e i “podcast” per scaricare una puntata e goderla quando si voleva, non sempre si avevano a disposizione i nastri per registrare, e anche in quel caso vinceva su tutto la forza invincibile del rito, l’attesa di un alba che spuntava all’imbrunire o meglio quando era già notte, d’inverno: fuori c’era la luna, ma per noi giovani esploratori sorgeva un nuovo giorno come in una canzone degli Hüsker Dü, “punk rock band” americana di poco successo commerciale che molti scoprirono grazie a questo programma e influente, a dispetto dei freddi numeri, sul rock prossimo venturo.
Sembra scritto nel destino che la “ragione sociale” di questo gruppo volesse dire, in più di una lingua scandinava, “Ti ricordi?”, e che dietro la naturale aggressività delle canzoni si celassero spesso temi personali, quasi intimi, come l’ambiente in cui di solito ci sintonizzavamo: la nostra stanzetta di ragazzini esuberanti colmi di energie pronte ad esplodere, ma che allo stesso tempo si guardavano dentro e si tormentavano. Le trasformazioni, cioè, proprie del tempo che avrebbe dovuto condurre dall’infanzia a un inizio di maturità mentre deflagravano invisibili emozioni contrastanti, perché “Amore e Odio era nell’aria, come polline da un fiore”: lo cantavano gli Hüsker Dü celebrando un’estate particolare, e noi, d’inverno, magari tra un pezzo dei Litfiba o dei REM ancora lontani dal grande exploit discografico e le timbriche che più sintetiche e anni ’80 non si potrebbe di una Anne Clarke declamante, in una specie di rap, gli ambigui versi “Tu sostieni il ritmo, io mantengo il tempo”, vivevamo la nostra estate tra nebbie, gelate e improvvisi sprazzi di sole, pensando alla furiosa partitella che ci avrebbe atteso all’indomani dietro la scuola, prima di entrare, o alla biondina della classe di fronte; e nell’intervallo del giornale radio, meditavamo se rimandare o no il suicidio a tempi migliori. “Stereodrome” rappresentò l’educazione musicale e in un certo senso sentimentale di una fetta forse minoritaria ma niente affatto piccola della mia generazione, e permise, fra l’altro, di ascoltare i “live” degli artisti specialmente stranieri nelle loro tournée italiane cui altrimenti tanti di noi, per ragioni anagrafiche e/o geografiche, non avrebbero potuto assistere. Non è un caso se nei primi anni ’90, quando la trasmissione si evolse nel nuovo spazio “Planet Rock” (comunque introdotto nel periodo iniziale dall’annuncio “Stereodrome presenta…”), una grossa percentuale di ascolto si concentrasse nel meridione dove fu persino fondato un “fan club” grazie ad Eliseno Sposato, ascoltatore fisso che faceva spesso sentire la sua presenza nel programma e attivissimo animatore della radiofonia e della scena alternativa in Calabria. Il club organizzò pure raduni che richiamarono un ampio pubblico proveniente da ogni parte dello Stivale, e in generale questa nuova incarnazione di “Stereodrome” conclamò una forma genuina di condivisione che proprio oggi si direbbe “social” ma prima dell’affermarsi della rete internet, grazie ad esempio allo scambio delle registrazioni dei concerti o quando, in seguito alla tragica morte del leader dei Nirvana Kurt Cobain, fu aperta una linea diretta, e in diretta, per permettere agli ascoltatori di esprimere il loro cordoglio e ciò che aveva significato nelle loro vite il musicista di Seattle, palesandosi ancor più l’esistenza di una comunità che sentì il bisogno di raccogliersi perché colpita nel vivo.
Una realtà anche scomoda perché controculturale e spesso schierata politicamente, “Planet Rock”, in anni di grandi trasformazioni per il Paese, e che subì per questo anche tentativi di repressione e sospensioni fin quando si trasformò a sua volta nel comunque validissimo “Suoni e Ultrasuoni”. La storia di “Planet Rock” è diventata anche un libro e la Rai, riconoscendone infine il valore, vi ha dedicato un sito; ma per noi, nati all’affacciarsi degli anni ’70, l’inizio di tutto fu quello che ci veniva presentato come “Il vostro rock-show nazionale”, il caro “Stereodrom scritto stereodrome”, e perciò, come salutavano allora i suoi conduttori, non possiamo che continuare a dire, con tutto il fiato che abbiamo in petto, “Rock on!”.