Il Cavalier d’Arpino a Santopadre
testi di Paola Caramadre e immagini di Antonio Nardelli
I tornanti impongono l’andatura del cammino, si accelera e si frena per adattarsi a quel serpente d’asfalto che si snoda lungo il fianco della montagna. Come in un sogno, appaiono sul ciglio della strada, una capra scura e mite, un gatto bianco e grosso e un piccione dal piumaggio particolare che non ha niente in comune con i suoi simili urbani. Il piccolo volatile sull’argine della strada è l’ultimo incontro prima di trovarci di fronte l’abitato di Santopadre.
Il borgo di origine medievale si eleva tra Arpino e Roccasecca e costituisce un punto strategico di avvistamento sulla media Valle del Liri. L’aria è frizzante, le temperature sono quelle tipiche delle zone montane e il panorama è racchiuso tra le vette che si innalzano al di là della Valle di Comino.
Sembra di essere in un presente antico. Un tempo, sospeso nel tempo, dove il ritmo rallenta. Il cuore batte leggero, il respiro si distende sotto la fronda protettrice del leccio secolare, quasi un custode della porta Napoli. Entriamo nel cuore del borgo fortificato, che nell’antichità era denominato “Castrum Foroli“.
Il sindaco Giampiero Forte ci accompagna in questo cammino tra i vicoli e ci spiega che il nome Santopadre è da attribuire alla devozione per il monaco San Folco che visse in questo luogo e alla sua morte concesse grazie ed eventi miracolosi alla popolazione. Da quel momento, il culto per il “santo padre”, San Folco, si sovrappose al toponimo antico fino a farlo scomparire.
Oggi, Santopadre è un piacevole borgo medievale, costruito con la pietra locale ricca di venature, in cui gli elementi contemporanei si armonizzano con le strutture antiche creando una commistione tra passato e presente. L’elemento più sorprendente è sentire la vita tra le mura del centro storico. Gli odori che arrivano dalle cucine, le voci delle televisioni, il bucato, i fiori sui balconi e alle finestre. Un centro storico abitato, vissuto, una rarità nel 2017 dove i piccoli paesi sono quasi del tutto spopolati. Si sale senza fatica, non ci sono scalinate difficili e nemmeno salite impossibili. Il cammino è semplice fino ad arrivare alla sommità del paese dove è possibile ammirare una torre cilindrica, ultimo gigante di quel sistema di fortificazione che caratterizzava il Castrum Foroli.
La tela a doppia facciata del Cavalier d’Arpino
Il cammino prosegue, si scende leggermente fino ad arrivare alla chiesa di San Folco. L’ingresso è raccolto e quasi anonimo. L’edificio di culto non ha una vera facciata, nascosta da abitazioni costruite successivamente. Si accede attraverso una porta laterale, nemmeno troppo ampia.
L’interno è magico.
Le volte affrescate con i toni dell’indaco e dell’oro, putti in bassorilievo che occhieggiano dall’alto, scene di vita dei santi, una luce soffusa che rabbuia l’interno e crea un alone di mistero. Sul portale della navata centrale, murato e accecato dall’esterno, si scorge un prezioso organo Caterinozzi risalente alla prima metà del 1700.
Di fronte, sull’altare principale, il dipinto che raffigura l’ultima cena attira l’attenzione. E’ istintivo avvicinarsi a quel quadro. La luce che emana, la scena ritratta, i volti dei personaggi, le mani, il cibo sulla tavola, tutto contribuisce a renderlo vivo. L’autore è Giuseppe Cesari, conosciuto al mondo dell’arte con il nome di Cavalier d’Arpino, straordinario interprete dell’età barocca definito dai suoi contemporanei “pittore unico, raro ed eccellente”.
Quello stesso artista che è stato maestro di Guido Reni e Caravaggio, è qui, con la sua pittura, all’interno della chiesa di San Folco. Il dipinto “L’ultima cena” è ricco di elementi simbolici che si illuminano grazie alla maestria dell’artista. Dietro, nella faccia che non abbiamo ammirato, si nasconde una “Resurrezione“.
Sembra incredibile incontrare un’opera così significativa in un piccolo paese, lontano dalle grandi vie di comunicazione, eppure è proprio nella chiesa di San Folco che, forse, si può comprendere a pieno il senso dell’arte sacra: la grandezza di un artista che contribuisce ad accrescere il senso della trascendenza attraverso un’opera d’arte che si intreccia alla vita delle persone più umili. Sembra di poter vedere anche adesso che la chiesa è vuota, le folle di semplici devoti inginocchiarsi davanti all’altare maggiore e pregare davanti al volto del Cristo immaginato dal Cavalier d’Arpino. Credere in quel volto, lasciarsi consolare dalla bellezza dell’arte, lasciarsi avvolgere dalla luce che emana dalla tela e credere nei miracoli.
Lasciamo la chiesa, torniamo in piazza delle lisce e ci avviamo verso porta Napoli per uscire da questo vortice temporale che ci ha proiettato nel medioevo, per farci riposare nel 1600 e poi riconsegnarci al presente.