Zia Carminuccia
di Mirella Morelli
Le estati erano torride, checché se ne dica oggi sul riscaldamento globale, effetto serra, clima impazzito…
O forse non avevamo ancora l’avallo della Scienza, ma certo è che le strade del paesino bruciavano. E non era chiaro fosse meglio, al tramonto, andar fuori casa a cercare il primo refrigerio del calar del sole, oppure continuare a vagare nelle stanze di casa in penombra, sgranando gli occhi.
Pomeriggi così.
Pomeriggi da lasciar rotolare: in attesa della notte, in attesa dell’autunno, in attesa dell’inverno. Tutto, tranne il torrido oggi.
Solo zia Carminuccia se ne stava seduta sulla sua mezza sedia, davanti alla porta di casa.
E dico “mezza sedia” perché allora, per le vie del piccolo paese, ancora transitavano quegli artigiani con furgoncino, e mille attrezzi, e opere certosine fatte in lunghe ore trascorse a tu per tu con se stessi.
Ciabattini, arrotini, impagliatori. E cos’altro?
Le sedie piccole e basse, quasi bonsai di sedie ordinarie, avevano una grande richiesta nei paesini del Sud, dove le donne già minute in gioventù divenivano uno scricciolo, con l’età.
Zia Carminuccia era uno scricciolo di donna. Ma davvero uno scricciolo.
E, da adolescente curiosa, osservandola mi chiedevo se il vezzeggiativo del suo nome era frutto del dialetto o non piuttosto una considerazione della sua minuterìa fisica.
Ma tant’è: la osservavo, con curiosità e stupore.
Seduta sulla sua mezza sedia artigianale, sotto la tenda parasole che il genero premuroso aveva allestito per lei sulla facciata della casa, zia Carminuccia se ne stava per ore, a godersi la sua vecchiaia.
Un dolceagro far nulla.
Da bambina passavo dinanzi a lei in bicicletta e la osservavo di sottecchi.
Poi, da adolescente mi avvicinavo a lei arrossendo, in cerca di mia cugina, per le prime passeggiate da sole.
E sempre lei era lì, sulla sua mezza sedia, all’ombra della tenda, dinanzi alla porta.
Il piccolo viso arricciato da rughe ottuagenarie che a seguirle ci si perdeva come in un labirinto. Il fazzoletto poggiato sul capo i cui lembi si ripiegavano da un lato e dall’altro, sulla sommità, senza annodarsi ma solo per dare fresco. Tutte le anziane donne del Sud, a quei tempi, portavano un foulard – ma qui si chiamava “fazzoletto”, e a dirla tutta in dialetto: “maccatur”!
Me ne ricordo tante, di donne con il famigerato “maccatur”.
Che oggi ci stupiamo del burqa, e certo non sarà la stessa cosa, eppure quel capo coperto in ogni stagione aveva un suo perché: ed era quello della morigeratezza, e del decoro.
Così me lo spiegavano le mille donne anziane che passavano col capo coperto, ed io ero poco più che una bimba irrequieta, che correva a piedi o in bici incontro al futuro, e scalpitando ironizzava verso ogni cenno di tradizione.
“Maccatur” era un vocabolo dal suono duro, di cui mai ho saputo comprendere la radice. “Maccatur” era quel piccolo e più o meno colorato pezzo di tessuto che fungeva da spartiacque tra la vecchia e le nuove generazioni.
E dico “nuove” perché sembravano rotolarne tante e di corsa, di generazioni, tra lei e noi.
Tra me, e zia Carminuccia.
Il futuro era veloce più del presente, era precipitoso, tagliava il fiato.
Non ancora pronte, le nuove generazioni si lasciavano quasi schiacciare, cercando nuovi simboli. E il “maccatur” era ormai a terra.
Zia Carminuccia aveva vissuto la prima e la seconda guerra mondiale. Era sopravvissuta a sfollamenti nelle grotte sui Montangoni e all’umiliazione dei pidocchi fra i capelli.
Aveva sposato un uomo alto e bello e distinto cui aveva dato figli dolci e pacati come loro. Aveva colto al balzo gli aiuti del Dopoguerra. E cibandosi di frutti del proprio orto, di nuove possibilità e di tanti amorevoli e adorati sacrifici aveva fatto studiare il figlio maschio, maritando decorosamente le figlie femmine.
Aveva avuto una vita piena, sfruttando ogni occasione di progresso che l’esistenza poteva offrire a una donna intelligente e laboriosa di quei tempi in un paesino del Sud. E la sua vita era appagata.
Se ne stava seduta all’ombra della tenda parasole che il genero affettuoso le aveva costruito intorno, non bastando più il suo ennesimo “maccatur”.
Circondata da piccoli gesti grati, e un po’ offuscate le riflessioni per colpa dell’età – così almeno volevo credere, forte dei miei quindici e impietosi anni, zia Carminuccia godeva il sapore dolceagro dei suoi ottant’anni.
Nel dolce far nulla.
Io arrivavo di corsa davanti alla sua mezza sedia, premendo un cerotto sul brufolo appena schiacciato, e suonavo impaziente il campanello in attesa che mia cugina – sua nipote!- scendesse incontro a un pomeriggio pieno di domani.
Lei alzava su di me il suo sguardo acquoso velato dalla cataratta e forse senza vedermi, seguendo il filo delle sue rughe ottuagenarie, come persa in un personale labirinto, piagnucolava piano. Più a se stessa che a me.
Mi risuona oggi nelle orecchie il suo lamento. O la sua preghiera a Dio, chi lo sa.
So che allora non capivo.
Piagnucolava piano, quasi con aria di bimba, e in modo agrodolce come il suo far nulla:
“Ih ih ih…
– una pausa, una meditazione, una conclusione –
Ma io non voglio morire!”.