Senza fissa dimora

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Olga si ferma, all’improvviso il suo lungo corpo resta impigliato in qualcosa di invisibile. Subisce una battuta d’arresto che frena il via vai concitato della strada. I passi risuonano tutt’intorno stridendo sui sampietrini calpestati da migliaia di passi. Olga è sospesa e immobile. Si passa una mano sugli occhi come se volesse chiuderli e non vedere un pensiero inafferrabile. Olga resta immobile con lo sguardo perduto dietro la scia di un’idea. Il lungo cappotto di lana blu scivola sul suo lungo corpo snello. Olga guarda in su’, scruta silenziosa il quartiere.

Osserva il rione, legge le insegne e punta con insistenza contro una palazzina tinteggiata nel colore della terra battuta. Solleva l’indice, lo punta contro la finestra al secondo piano. Vorrebbe gridare, ma faccio in tempo. Le afferrò una mano, le sfioro le dita, volo intorno al suo lungo corpo rigido. “Olga, Olga cara”, le grido ridendo. Mi guarda e sorridendomi mi dice a bassa voce: “Io abitato lì”.
“Lo so Olga, lo so, ma adesso hai la casa più grande del mondo”, le dico e le stringo le dita intrecciate alle mie.
“Eh, Somaro mio, eh… ma io, prima, abitavo in quella casa”, mi risponde con la tristezza annidata nelle rughe che le solcano il viso.
“Olga! Guarda che casa grande hai adesso. Tutta Roma è casa nostra”, lei mi sorride scuotendo la testa come fossi uno scolaretto svogliato e punta il piede destro in avanti. “Dove andiamo allora? In quale appartamento?”, mi chiede scherzosa.
“Andiamo dal Papa stasera, andiamo dal Papa!”.

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