Promessa

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di Giuditta Di Cristinzi

Andando a piedi, nel cuore della notte, con le tue poche cose chiuse in fretta in una busta di plastica verde, verso casa della nonna, una mano aggrappata alla giacca di Carlo, una stretta, tutta sudata, nelle grinfie di Pina, ti chiedevi che male avevi fatto mai.
– Muoviti, cammina, vedi che sta per piovere…
Avresti voluto gridare che non ce la facevi più, che non riuscivi ad andare più veloce di così, avresti voluto dirle di tornarsene a casa, di lasciarvi da soli lì, per strada, nel buio, che tu e Carlo ve la sareste cavata da soli, che conoscevate la via e che l’avreste trovata la casa della nonna.

Ma ingoiasti le lacrime salate che ti bruciavano il visino tenero e tirasti in su col naso anche le parole che, lo sapevi, sarebbero state inutili e avrebbero irritato, se possibile ancora di più, Pina.
Tuo fratello Carlo ti camminava a fianco, in silenzio, ubbidiente, apparentemente insensibile all’ennesima scenata, ma di sicuro stava male come e più di te.

Lui era stato sempre così, impassibile, pareva un soldatino in riga, come al funerale della mamma.
Basta, avevi deciso. Anche se tuo padre e Pina avessero fatto pace, non saresti ritornata mai più in quella casa dove ti sentivi di troppo.

La Pina pensava solo alle sue bambine e voi eravate un peso che, dopo i primissimi tempi di vita insieme, lei usava solo come merce di scambio o come arma di ricatto col marito. Del resto, tuo padre non faceva nulla per farla star zitta, per tenerla buona. Beveva e beveva. Continuava a rincasare tardi e a non portare mai abbastanza soldi a casa. Quella notte poi aveva proprio esagerato.

Era tornato alle due, dopo una scazzottata forse, sanguinante. Aveva tentato di afferrarla, le aveva sporcato il letto. Pina si era ribellata. Avevi sentito solo le sue urla, quando lui, fuori di sé dalla rabbia, l’aveva minacciata di buttarla giù dalla finestra.

Ti eri svegliata, spaventata da morire. Ti eri ricacciata ancora più giù tra le lenzuola lise, fingendo di dormire. Ma lei ormai era infuriata. Aveva aspettato che tuo padre, sfinito, s’addormentasse per vendicarsi, come al solito. La storia andava avanti da troppo tempo. Ma forse quella era la volta buona. Forse si lasciavano davvero. Ti dispiaceva un po’ solo per le bambine. Camilla e Carlotta, in fondo, erano le tue sorelline, più piccole e più fortunate, avevano la mamma loro. Ma il babbo, quello lo condividevate ed era un disastro per tutti.

Per fortuna la stanchezza e il sonno erano più forti dei cattivi pensieri. Quando Pina diede la prima scampanellata al portone della nonna, eri rassegnata e tranquilla, come la superficie di uno stagno che nasconde sabbie mobili.
– Chi è?- fece la voce nota, bassa e impastata, dagli scuri della finestra al primo piano.
– Maria, siamo noi, scendete.
– Che è successo?
– Nonna, siamo noi, – fece Carlo come ravvivandosi.

– Vostro genero ne ha fatta una delle sue, ma per me è l’ultima. Io lo lascio. Domani mattina lo sbatto fuori di casa. Le gemelle restano con me, ma questi è meglio che li riteniate voi. Quella bestia non è in grado di badare neanche a se stesso.
Ti avviasti su per le scale grigie. Povera nonna, non era le bastato perdere la figlia, ora doveva anche ricominciare tutto daccapo e prendersi cura di due ragazzini.
Ma no, promettesti alla tua stella lassù.
“Saremo noi che ci prenderemo cura di te, nonna cara.”

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