Polvere
Durante l’arco della mia vita mi sono chiesta se, per caso, mi fosse stato assegnato questo destino fin dalla nascita.
La mia permanenza in questo mondo non era partita in salita, mio padre aveva un buon lavoro e mia madre era una bellissima donna. Questa coppia molto invidiata aveva avuto due bambine, altrettanto belle e fortunate. In effetti, ad uno sguardo esterno, il nostro doveva sembrare un bel quadro.
La differenza tra i due lati dello specchio, quando l’argento smette di riflettere, è che non c’è nulla che puoi vedere se non la realtà. Forse era tutto già deciso, si dice che a certe cose non puoi opporti e che il destino si incontri sulla strada intrapresa per evitarlo.
Mia madre e mia sorella sono sempre state creature strane, abitanti di un mondo che io non vedevo e non mi era concesso visitare.
La realtà potrebbe essere che non ho mai provato davvero a comprenderle. Se avessi dovuto rispondere a una domanda in merito, probabilmente direi che mi è stato insegnato che non puoi aprire porte che non sei interessato a varcare.
Mio padre mi ha sempre detto che avrei trovato la mia dimensione, uno stagno mio dove nuotare ma io non volevo essere un pesce. Volevo essere niente, vivere nelle ombre e sparire altrove, in un luogo dove nessuno avrebbe potuto guardarmi e parlarmi.
Conoscete la storia di quell’uomo che per povertà d’animo abbruttì la sua immagine interiore? Non c’è un perché, certe anime nascono con la voglia di andarsene, con il legittimo senso di non dover nulla al mondo.
Sembrava che la mia attitudine potesse diventare un lavoro, ben pagato per giunta.
Mi venivano consegnate lettere: il mio compito era sparire nell’ombra per riapparire solo dopo che la missione era stata compiuta, nulla di più facile.
All’inizio, pensavo che mi avrebbe destato qualche sensazione di colpa guardare le persone morire. Fu una delusione scoprire che, in realtà, non mi interessava.
Nessuno merita la morte ma per la stessa ragione nessuno merita la vita. Si è solo un nome, una traccia di inchiostro su di un foglio che sbiadirà nel tempo, me compresa. Perché avrei dovuto preoccuparmene?
Per anni ho giocato a scacchi con la mia stessa Morte, le ho dato più ragioni per uccidermi di quelle che avrebbe avuto per tenermi in vita. L’ho stuzzicata così tanto che guardarmi vivere e annaspare, tutto il tempo, deve aver costituito il principale divertimento del suo tempo libero.
Credo di aver provato ogni tentazione che questo mondo mi abbia offerto. L’ho fatto per sfidarla, per batterla: volevo che tutte le voci nella mia testa se ne andassero, che smettessero di sussurrare le ore e i modi in cui sarei morta.
Quella famosa sera sperai che, finalmente, mi portasse via.
Non ricordo esattamente tutto, mi ero imbottita di droghe e di alcol. L’unica cosa che so è che, forse, ero uscita con alcuni miei compagni di corso all’Accademia.
Ricordo gli intrecci di mani, i corpi che sbattevano, gli schiaffi, la lama e il sangue sulla mia mano mentre mi tastavo l’occhio destro. Non credo di aver riso così tanto in tutta la mia vita e per una volta mi addormentai serena.
La mia amica Morte fu proprio birichina: quella notte mi ha portato nelle sue stanze per poi sbattermi fuori senza neanche una spiegazione, fu davvero crudele e con una punta di sadismo che riconosco troppo spesso anche in me stessa.
Mi sono svegliata nel letto di un ospedale, con più bende che pelle e un sorriso al mio fianco. Avevo già visto quel volto, lo avevo incontrato durante le mie veglie notturne. Era un volto a cui non avevo donato considerazione e ora tentava di rassicurarmi.
Mi aveva raccontato di come mi avesse trovata: i soccorsi erano arrivati subito ma non era affatto sicuro che sarebbero riusciti a salvarmi e, per un attimo, me ne ero andata davvero; poi è arrivato un battito e l’unica cosa su cui ora erano indecisi era se il mio occhio si sarebbe salvato.
Perché questo sconosciuto si preoccupasse di vedermi rifiorire lo sapeva solo lui ma, all’inizio per gioco, iniziai a pensare di rialzarmi, solo per guardare la sua espressione mentre si rendeva conto di chi avesse davanti. Poi le cose iniziarono a cambiare e le voci erano sempre più lontane ogni volta che veniva a trovarmi, fino a che mi trasformai nel girasole che si volta verso l’astro luminoso.
Ed ecco che avevo trovato una ragione per vivere.
Era una rosa bianca in fondo ad una stanza piena di trappole: giochi che avevo lasciato e dimenticato perché non me ne era mai realmente interessato, cose che volevo che trovasse nel mio animo perché una donna normale è così che deve essere ma lui non era interessato agli oggetti, voleva solo che non ci fosse buio.
Alla fine, trovò una luce così forte da spaventare ogni ombra, un sole così splendente che pensavo non potesse essere sconfitto, ma la luce nasconde esattamente come l’oscurità. Il riso sottintende le lacrime e versai le mie prime il giorno che il sole morì e l’angelo venne portando la siccità, il fuoco e l’apocalisse.
Avevo una vita in me e sarebbe cresciuta nutrendosi di polvere. La mia dolce e beffarda amica dichiarò scacco matto, si prese la mia anima lasciando indietro il corpo.
Sono solo polvere tra le mani di un piccolo fiore.