Lucrezia
Sente la terra a pochi centimetri di distanza dal suo naso. Un odore umido e primitivo le invade le narici mentre, per una manciata di secondi, il rumore del nulla la scaraventa nel panico più assoluto.
Lucrezia si sveglia sudata e ansimante: è già la terza volta che gronda sudore per questo sogno. Cosa vorrà dire? Il terreno, il nulla e quell’odore le regalano un atroce presagio di morte.
Reggendosi sui gomiti, a fatica, afferra il bicchiere d’acqua sul comodino e, ad occhi socchiusi, beve un sorso, nella vana speranza di calmarsi e riprendere il contatto con la sua realtà.
– Lucrezia?
L’infermiera, forse la più simpatica del suo reparto, avanza adagio, stringendo tra le mani una cartellina verde erba che Lucrezia guarda con sfida, pensando che lì, proprio lì dentro, siano riportati i movimenti di tutti i suoi organi, lo stato di tutte le sue budella e soprattutto del suo cuore. Istintivamente, si porta le mani al petto, come se avesse l’intenzione di afferrare la dimora delle sue emozioni e dei suoi ricordi e metterla in tasca, nascondendola. Quel cuore non si tocca. Quel cuore è suo. E lei vuole essere l’unica a sapere cosa accada all’interno di esso. Il ricordo di Giulio vive come un prato segreto di fiori freschi. Cinquant’anni insieme. Cinquanta magnifici, difficili anni.
– Buongiorno.
– Ma sei tutta sudata!
Lucrezia piega le labbra su se stesse e alza le sopracciglia che incorniciano due occhi color ghiaccio, ora leggermente sgranati.
– Devo fare ancora analisi, oggi?
L’infermiera le regala un sorriso limpido.
– No. Oggi arrivano le tue figlie e ti aiuterò a farti bella. Torno tra una ventina di minuti.
Sempre sorridendo, nella convinzione di aver regalato a Lucrezia un’euforia senza pari, si chiude la porta alle spalle. Lucrezia aveva letteralmente rimosso che oggi riceverà visite. Scuote la testa lentamente, mentre gli occhi le diventano due cubetti di ghiaccio quasi sciolti.
Tre anni, due mesi e cinque giorni. Mai come in questo periodo Lucrezia è stata schiava della misurazione meccanica del tempo.
– Resta qui. Non puoi prenderti cura di me, oggi?
Quando era impegnata col corso di pittura, quello di yoga e quello di ginnastica, il suo Giulio le dava l’idea di essere un cagnolino tenero e abbandonato. Le diceva che era una farfalla instancabile, che si posava su fiori diversi, per la sua innata tendenza a fare mille cose, tutte insieme.
Una farfalla, sì. E lei si sentiva tale. Libera, amata, coccolata, ricercata.
Anche ora Lucrezia si sente una farfalla; ma ha la sensazione che un collezionista l’abbia catturata e intrappolata in un barattolo senza aria, aspettando la sua morte lenta e silenziosa; una morte che la lasci intatta, bella. Ma senza vita.
L’infermiera torna in stanza.
– Allora, quale vestito vuoi mettere?
Spalanca le ante dell’armadio bianco e passa in rassegna i vari vestiti di Lucrezia che, nel frattempo, ha lo sguardo proteso nel vuoto.
Non vuole vedere le sue figlie. L’hanno relegata qui, contro la sua volontà. Una volta, credeva che la volontà di una madre su se stessa valesse qualcosa. Poi, quando Clara, Livia e Giada, in quel pomeriggio novembrino, poco dopo che Giulio se n’era andato, al primo problema di salute che Lucrezia aveva avuto, le dissero che sarebbe stato meglio fosse andata a stare in quella casa di cura, ebbe la sensazione di sanguinare. Già, come se loro tre, insieme, avessero impugnato un coltello e gliel’avessero piantato lì, dritto al petto. Stordita dal dolore per la morte del suo amore, lì per lì non fu in grado di dir nulla. Poi si oppose, s’arrabbiò, credendo d’impugnare l’arma dell’autorevolezza materna, quella che tanto spaventava le sue bambine, quand’era una giovane mamma impulsiva, piena di passioni. Quando le dissero che sarebbe stato per il suo bene, che non ci sarebbe stato verso di far loro cambiare idea, che erano preoccupate a saperla in quella casa enorme, tutta sola, Lucrezia si sentì una bambina. Senza diritti, senza potere su se stessa. In trappola, senza libertà. Sola, come non si era mai sentita in vita sua. E pensare che anni fa, lei e Giulio avevano progettato di invecchiare insieme… in quel pomeriggio d’estate, mentre sorseggiavano la loro limonata quotidiana in giardino, dandosi la mano scherzosamente, si erano giurati che sarebbero rimasti sempre assieme e che nessuno dei due avrebbe permesso che l’altro andasse in una casa di cura. Lucrezia gioca con i bottoncini rosa della sua camicia da notte e tira su col naso. Vorrebbe piangere, ma teme d’aver finito le lacrime.
Anche se fosse cieca, sorda, anche se le mancasse una gamba, il più grande desiderio di Lucrezia è quello di vivere da sola. Lì, nella villa in cui viveva col suo Giulio. Libera, circondata dai suoi ricordi che hanno quel profumo. Il profumo di Giulio.
– Ehi, Lucrezia. Oggi sei pensierosa? Quale vestito vuoi mettere?
L’infermiera continua a sorridere, prendendo una giacca a fiori.
Scuote la testa e, senza accorgersene, emette un lamento. Teme che la visita di oggi sia uguale a tutte le precedenti. Il classico ciao mamma ripetuto per tre volte, tre baci sulla stessa guancia, sei occhi seri, preoccupati per la sua salute. Già: le sue figlie si preoccupano per la salute del suo corpo; ma perché non pensano a quella della sua anima? L’anima di Lucrezia è oppressa, circondata da sbarre di ferro, come quelle delle prigioni più umide, più scure. Parleranno con l’infermiera che ora sta facendo banali considerazioni su quanto siano belli i fiori della sua giacca, vorranno vedere le cartelle cliniche, le chiederanno se vorrà fare una passeggiata in giardino, dato che c’è il sole e ieri ha smesso di piovere. Deglutisce la sua delusione. Beve un altro sorso d’acqua e si accorge che non ha più niente. Non ha affetto. Nessuno le regala sguardi caldi, che danno tepore al cuore. Ha solo i suoi ricordi, che più passa il tempo e più teme diventino nebbia densa. No, oggi ha deciso che non vedrà le sue figlie. Non le vuole vedere.
Lucrezia vuole solo morire.