Le vittime
di redazione
La morte è sempre terribile. La fine che sgomenta e atterrisce. La morte crudele, senza speranza, che spezza i legami, annulla gli affetti. Isola, affida al ricordo. Ma c’è qualcosa di più brutto della morte ed è il morire.
Quando guardo la forza che emanano certi gruppi di uomini, penso di dovermi comportare come farei con i cani randagi. Non abbassare lo sguardo, non fare gesti inconsulti, addomesticare la paura e nasconderla ben bene. E sperare di passare inosservata. Perché temo? Perché ho paura? Perché attribuisco a tutti la stessa intenzione malvagia? Perché sono rimasta ferita.
Una volta, mi capitò di assistere ad una scena terribile. Terribile come la morte. Più terribile della morte che, a volte, può essere pietosa e altre giusta. Un branco di cani inferociti ringhiava con foga. In circolo con i canini sguainati, le mascelle crudeli, le bestie giocavano nel loro modo ferino. Tra le loro zampe, le loro fauci spalancate si palleggiavano il corpicino piccolo e inerme di un cucciolo di gatto. Il piccolo felino, come un peluche ormai inanimato veniva sbattuto da quei terribili cani non paghi di avergli strappato la vita. Per il gattino non c’era più nulla da fare. Il suo morire era avvenuto nel più atroce dei modi, vittima del sopruso, dell’abuso. Della crudeltà senza appello e senza ragione. Vittima della forza bruta e della violenza. Vittima dileggiata anche dopo la morte.
Anni dopo, molti anni dopo, ho scoperto che gli uomini potevano essere non da meno di quei cani rabbiosi e ho pianto per tutte le vittime dei soprusi e della violenza, per tutte le vittime che come quel piccolo gatto non hanno mai avuto vendetta. Anzi, non hanno mai avuto indietro la sola giustizia che avrebbero meritato: la restituzione della vita strappata dalla crudeltà delle bestie.