Il mio secondo primo giorno di scuola (Ilaria sei grande)
Ieri è stato il mio secondo primo giorno di scuola. Ho ventisei anni, da due mi sono laureata in lettere e ieri, per la prima volta, sono andata ad insegnare. Ma il destino mi ha giocato un brutto tiro, perché, con tutte le scuole che ci sono in questa città, i miei primi giorni da supplente li sto facendo nel mio vecchio liceo, dove non mettevo piede da otto anni, e dove non avrei mai creduto, un giorno, di ritrovarmi. Non ha senso, mi sono detta, è innaturale varcare di nuovo quel portone, salire quelle scale, scivolare lungo i corridoi; è come riaprire une parentesi senza avere null’altro da aggiungere, come ripresentarsi sul luogo di une festa quando se ne sono andati via tutti. E ho avuto voglia di tornare indietro. E invece sono andata avanti: l’ho varcato quel portone, le ho salite quelle scale, attraversati i corridoi. Cercavo di non pensarci, di immedesimarmi quanto più possibile nella mia nuova veste di insegnante alle prime armi, di non dare importanza ai luoghi, di non assecondare quell’antica atmosfera.
Signorina Dossetti – mi sono sentita chiamare. Era Vincenza, le, bidella. Non devo essere cambiata molto in otto anni se mi ha riconosciuta subito, pur non essendo in jeans, come mi era di abitudine a quei tempi, ed avendo ormai accorciato i capelli che portavo, allora, lunghi fino alle spalle.
Ma il suo viso no – mi ha detto lei – il suo viso è sempre lo stesso, lo sa? –
e mi sentivo imbarazzata e ansiosa davvero come una bimbetta al primo giorno di scuola.
Anche lei non è cambiata per niente – ho mentito.
Su Vincenza quegli otto anni in più si vedevano tutti, erano passati come una mezza giornata di sole su un pupazzo di neve.
Sono stata male, che ne vuol sapere? – si è schermita lei; si è afferrata al manico della scopa come a un bastone ed il volto le si è incupito d’un tratto, quasi ho temuto che si mettesse a piangere. Invece ha sorriso.
Rialzando lo sguardo mi ha chiesto – Si è sposata?
Ho fatto cenno di no con la testa e avrei voluto aggiungere qualcosa, informarla almeno che sono fidanzata, che il mio compagno si chiama Roberto, che fa l’architetto e mi vuole bene, ma non ho detto nulla. Sono rimasta a fissare il suo camice blu, e nella mente mi è tornata veloce come un lampo l’immagine di Mino che in quello stesso posto, otto anni prima, mi aveva detto: Ti voglio sposare , ed anche allora ero rimasta senza parole, ma con la testa piena di pensieri felici e leggerissimi.
Ora devo andare – mi sono scusata con Vincenza, mentre la campanella stava suonando l’inizio delle lezioni.
Mino che farà, adesso? E Valeria? E Guido? E Marzia? Mi ero ripromessa di non pensarci, ma sentivo risalire alla superficie un tepore di sensazioni nascoste, caldo e piacevole, come brace ancora accesa sotto la cenere morta. Mi ripetevo che non aveva senso, ne ero consapevole. – Ti voglio sposare – mi aveva detto Mino, ed io sono sicura, lo sono sempre stata e continuo ad esserlo, che lui era sincero in quel momento; che eravamo sinceri, allora, come non lo saremmo più stati, tutti, ancora cuori in cattività ansiosi di fuggire liberi, senza renderci conto di esserlo, a quel tempo, come più non sarebbe stato possibile. Perché sono i sogni, i sogni soltanto che ci fanno veramente liberi, ed avere tutta la vita davanti per realizzarli, mi aveva detto Mino, con l’aria solenne di uno che sta declamando un’ode, e forse non sapeva di aver detto, scherzando, una cosa tanto vera.
Sono entrata in classe, la stessa dove avevo frequentato l’anno della maturità. Non era cambiata molto, a parte qualche cartina geografica aggiornata alle pareti, una nuova lavagna, la foto di un nuovo Presidente della Repubblica incorniciata al muro. E – lo ammetto – i ragazzi, dopo aver aperto la porta e gettato una prima occhiata all’interno, per un attimo mi sono sembrati gli stessi di allora; mi sono sentita una loro compagna arrivata in ritardo. Invece loro appena mi hanno vista entrare hanno smesso di chiacchierare, sono tornati velocemente ai loro posti, tutti in piedi per salutarmi.
Buongiorno! Mi chiamo Ilaria Dossetti e sostituirò per qualche giorno la vostra insegnante di lettere. – L’ho detto tutto d’un fiato, come un’annunciatrice al suo debutto davanti alla telecamera.
I miei alunni mi hanno guardata con un misto di curiosità e d’imbarazzo, forse non si aspettavano che fossi così giovane, o forse avevano intuito la mia inquietudine. Mi sono seduta alla cattedra, ho appeso la borsetta allo schienale della sedia. Il cappotto l’ho solo sbottonato: faceva freddo, perché i termosifoni erano spenti e perché quell’aula, me lo ricordavo bene, è sempre stata particolarmente fredda.
Ho detto – Voglio fare la vostra conoscenza. – Ho cercato di sorridere nella maniera più naturale possibile, ho cominciato a fare l’appello: – Acciardi… Alvesi… Biga…
Mino mi aveva coperto gli occhi con le mani, una mattina, mentre aspettavamo che iniziasse la lezione. Fu la prima volta che mi baciò. Eravamo all’inizio di una seconda ora e ci eravamo ritrovati da soli in classe, gli altri si erano attardati in palestra. Mino mi era venuto dietro furtivamente e mi aveva messo le mani sugli occhi. Ma non mi domandò chi fosse.
Chiese – Chi vorresti che fossi‘?
Gli dissi – Non vale, non si fa cosi.
Allora? – incalzò lui.
Mino – risposi alla fine. Ero ancora esausta per gli esercizi fatti in palestra, ansimavo.
Mino mi chiese – Sei proprio sicura? – Anche lui aveva ancora il fiatone: mi piaceva sentire il suo alito tiepido sotto la nuca, la sua presenza forte e accaldata dietro di me.
Sì. Mino e soltanto Mino – replicai. Ci baciammo, e mi parve di sentire nella sua bocca un sapore diverso da come me l’ero immaginato, ed un calore diverso alle mie tempie. Quel sapore e quel calore li sento ancora, se ci ripenso, e nello stesso istante in cui lì percepii quella prima volta mi resi conto che sarebbero stati un ricordo che non avrei più smarrito, come accade sempre di tutte le cose inaspettate ma volute.
Vorrei sapere a che punto del programma siete giunti, così vedremo di andare un po’ avanti in questi giorni che passeremo insieme.
Una ragazza al primo banco si è avvicinata a porgermi il suo libro di letteratura.
Qualcuno in fondo alla fila ha precisato – Avremmo dovuto cominciare Pascoli, questa settimana.
Da subito dopo la maturità non volli sapere più niente di Mino. La nostra piccola storia d’amore era già finita da qualche tempo, e in quel periodo mi sembrò una cosa terribile il suo essersi conclusa, lo vissi come un lutto che non avrebbe smesso di addolorarmi. Ma le cose della vita mi trascinarono con loro più repentinamente di quanto mi sarei aspettata, e nei mesi che seguirono a quel cambio di stagione il ricordo che prese il posto del dolore mi sembro una convalescenza confortevole, una guarigione irreversibile. Credo che certe esperienze trovino la loro compiuta ragion d’essere solo se si esauriscono in un tempo limitato e circoscritto, e quando restano incastonate nella memoria, solo allora, raggiungano la loro autentica realizzazione, ché l’averle vissute era solo un modo, indispensabile, per farne in seguito rimembranza. Come il mettersi in posa per una fotografia, funzionale soltanto all’immagine che ne resterà impressa per sempre nella memoria di un computer. Mi sentivo meglio.
I miei alunni mi guardavano, per ciò che ai loro occhi apparivo, una giovane insegnante; loro non sapevano, non immaginavano i miei pensieri (come avrebbero potuto?), erano soltanto impazienti di scoprire come mi sarei comportata, se severa o indulgente. Mi sforzavo di dare questa seconda impressione.
Dove ero seduta io una volta – fila di centro, terzo banco a destra – adesso c’era seduta una ragazza con i capelli rossi e gli occhi trasparenti e pensierosi. L’ho fissata, e quando lei ha cambiato espressione, vagamente allarmata, ho sorriso, le ho detto – Leggi a pagina duecentoquarantadue.
Ero intenta a seguire le parole del libro, a concentrarmi, contemporaneamente, su ciò che avrei detto di lì a poco per commentarle, quando ho avuto un piccolo sussulto interiore. E se fosse ancora lì? E se il tempo non l’avesse cancellato, come fa sempre con tutto? Mi sentivo prigioniera dietro la cattedra, non potevo continuare a far finta di niente: dovevo sapere. Subito. Ho interrotto la ragazza con i capelli rossi, scusandomi con tutti quanti. Mi sono alzata e avviata con passo deciso. Ho sentito il brusio di voci che prendeva vita nell’aula mentre accostavo la porta dietro di me; ho attraversato quasi di corsa il corridoio, sotto lo sguardo sorpreso di Vincenza, seduta dietro al suo banchetto; sono scesa giù fino alla palestra, uscita nel cortile. Il cortile della palestra era vuoto, per fortuna in quel momento nessuno stava facendo lezione. C’era solo la lieve foschia che mi aveva accompagnata fin da quando ero uscita da casa e che stentava a diradarsi. Ho guardato sul muro, proprio nei pressi dell’olmo all’ombra del quale noi ragazze ci soffermavamo a chiacchierare quando le giornate si addolcivano e si percepiva imminente il “liberi tutti” della fine dell’anno scolastico. Era ancora li. In parte coperto da altre scritte, dalle testimonianze graffiate sull’intonaco di nuovi amori vissuti e forse già smarginati dal tempo, da slogan politici ormai superati o sconfitti dalla storia. Ma c’era ancora. Visibile. Come il reperto archeologico di una civiltà perduta che si ostina a testimoniare un passato che non esiste più. Quel cuore mezzo storto con dentro scritto ILARIA SEI GRANDE che Mino aveva inciso, un giorno, sulla parete gialla. C’era ancora il residuo tangibile, l’unico, del nostro amore adolescenziale. Su quel vecchio muro screpolato come la buccia di un frutto secco. Quelle parole le leggevo adesso in modo capovolto. Sei grande, Ilaria. Sei cresciuta. Il tempo dei ricordi, ormai, appartiene solo ai ricordi. Ora è tempo di un nuovo inizio. Mi sono munita di un sasso piatto e sufficientemente appuntito. Ho trovato la posizione giusta per fare in modo che la polvere, staccandosi e disperdendosi, non mi finisse addosso. E ho cominciato a raschiare. A cancellare. Prima il contorno esterno, poi la scritta interna, parola per parola. Dopo una manciata di secondi non c’era più niente. Solo una macchia bianca, una chiazza vuota e desolata come quella che lascia un quadro quando viene rimosso dalla parete. Ho buttato via la pietra e mi sono guardata intorno: nessuno mi aveva vista, a quanto pareva.
Sono tornata su molto più lentamente che a scendere, ma nel petto il cuore mi batteva più veloce. Si calmerà, ho pensato. Sono rientrata in classe, e qualcuno mi ha domandato se stessi bene.
Sì che sto bene – ho risposto. Ho riaperto il libro davanti a me, ho chiesto alla ragazza con i capelli rossi – Dov’eravamo? Poi, prima che lei potesse rispondermi, mi sono corretta.
No, ho cambiato idea. Ricominciamo daccapo.