Il giorno dopo
Responsabile. Sono stata responsabile. I sorrisi di circostanza dei colleghi, quelli più giovani in particolar modo, mi ricordano che sto andando via. Ho fatto quello che ho visto fare nei film americani. Ho preso una scatola di cartone all’uscita del supermercato sotto casa e sono andata in ufficio. In ventitrè anni ho accumulato documenti, fotografie, ricordi, scontrini, biglietti. Per ventitrè anni ho trascorso la mia vita in questo ufficio. Sono entrata come responsabile. Non dovevo dimostrare niente a nessuno. Io, sono stata responsabile. Ho dato tanto, ho dato tutto. Il mio tempo, le mie gioie, le mie felicità. Ho regalato a questo ufficio il saggio di danza di mia figlia, la sua paura della solitudine e la mia paura di restare da sola. Ho sacrificato mio marito. Ho pensato di essere migliore di lui perché lui non era responsabile di niente. Ho pianto qualche volta, ma ho fatto in modo che nessuno se ne accorgesse.
Sono rimasta sulla porta dell’ufficio con lo scatolone in mano, la tracolla della borsa in bilico sulla spalla e una grande voglia di piangere.
“Signora Ornini, ha bisogno di aiuto?”, la voce della segretaria bionda mi disturba, mi ricorda che da domani la mia vita apparterrà a me soltanto.
Mi volto, la osservo come non ho mai fatto prima, faccio un cenno di diniego con la testa. Non ho voglia di parlare.
Il direttore non c’è. Non ha ritenuto opportuno salutarmi.
Il suo vice mi viene incontro con un sorriso che mi ricorda che non sono più responsabile. “Signora Ornini”, mi saluta accattivante e conciliante. “Mi dispiace moltissimo che l’azienda debba fare a meno della sua validissima collaborazione”.
Dopo ventitrè anni, nessuno ha ritenuto di dovermi congedare in maniera adeguata. Finora me ne sono occupata io. Tra le mie mansioni c’era anche quella di salutare adeguatamente i colleghi che ci lasciavano.
“Chi si occuperà di questo?”, mi viene spontaneo chiedere e il vice direttore, contrariato, perché non ama le domande, mi spiega: “Come ha avuto modo di leggere nella raccomandata che le è stata recapitata ieri, il servizio, che lei ha garantito per tutti questi anni, è stato esternalizzato. L’azienda si è liberata di queste incombenze nella gestione dell’ufficio. Ecco perché non abbiamo più bisogno della sua collaborazione. La gestione del personale è affidata ad una società all’avanguardia e competente, mi dispiace molto signora Ornini”.
“Dottoressa, prego”, gli sottolineo.
E’ stupito, mi guarda, è perplesso: “Prego?”
“Mi ha sempre chiamato dottoressa Ornini, gradirei lo facesse ancora. Arrivederci”.
E’ arrivato il momento di andare. Mi avvio verso le scale, prenderò l’ascensore. Tratterrò le lacrime. Piangerò solo quando sarò arrivata a casa, immagino quel momento. Quando supererò la soglia, mi chiuderò il portone alle spalle e nel silenzio, che la mattina avvolge la mia casa, lascerò alle lacrime la possibilità di bagnarmi il viso. Pregusto quel momento in cui singhiozzerò senza pudore, quell’istante in cui piangerò per la mia vita finita. A cinquant’anni cosa ne sarà di me? Cosa farò? Trattengo il respiro e trattengo le lacrime. Affretto i passi, devo andare a casa.
Da domani la mia vita apparterrà solo a me.