Gli avevano rubato la dignità

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Non riesce a crederci. Trentasei anni e mezzo. Dopo anni di sacrifici, rinunce, mal di schiena e mani ormai rovinate, lo cacciano fuori così, come se non servisse più. Eppure, non si era mai lamentato. Quante volte aveva sentito i suoi colleghi ripetere che se ne sarebbero voluti andare, che quel lavoro non faceva per loro? Lui sempre in silenzio. Quando cercavano nei suoi occhi rossi approvazione, Michele abbassava lo sguardo: non poteva dar loro ragione, perché in fondo era felice di lavorare. Gli piaceva, sì. Si sentiva fortunato. Era grazie a quel lavoro che le sue due figlie avevano potuto studiare. Senza il suo mestiere d’operaio, non avrebbe nemmeno potuto ultimare i lavori della casa in tempo. E il matrimonio di Rosa? Si era scelta un marito benestante, sua figlia; di conseguenza, sarebbe servito un matrimonio elegante. Ricorda ancora gli occhi di sua figlia, quando gli disse che ci avrebbe pensato lei a ricoprire la parte da pagare: il pranzo, l’atelier, le bomboniere.
– Non se ne parla! – Le aveva gridato. L’orgoglio di un padre non è mai meschino. Doveva accompagnare la sua primogenita all’altare e l’avrebbe fatto a testa alta. Michele fece straordinari e lavorò anche di notte. Il matrimonio di Rosa fu una favola. Michele quel giorno era stanco, ma felice che sua figlia non si sentisse inferiore all’uomo che aveva sposato.
Poi, è arrivato ieri, il giorno in cui il capo non ha voluto sentire ragioni:
– Mi dispiace, devi andartene. Lo so che sei uno dei veterani, ma…
– Posso lavorare solo di notte. Posso lavorare anche più delle ore che faccio.

Gli veniva da piangere. Mentre parlava, sentiva la sua voce strozzarsi a poco a poco e dissolversi in un lamento che andava a morire in gola. Gli veniva da piangere e si vergognava terribilmente della sua voce, della sua reazione. Non voleva umiliarsi, ma Michele aveva dei debiti da pagare e congiunse le mani, come davanti a una statua sacra.
– La prego. Non mi mandi via. Ho bisogno di questo lavoro.
Lo sguardo algido del capo gli attraversò il petto.
– Michele. Non peggiorare le cose. Ti assicuro che se riusciamo a risolvere tutto, ti chiamo. Ti riassumo.
Deglutì, ritornando per un attimo in sé. Si era umiliato. Il cuore gli batteva in quella gola dove la sua voce disperata, pochi istanti prima, era morta. Si schiarì piano la voce, gettò gli occhi in quelli del capo, gli tese la mano e lo salutò.
Il lavoro era tutto quello che aveva. L’unico modo per regalare a sua moglie un sorriso in più, la sera. Ed ora glielo avevano strappato. Gli avevano rubato la dignità.
Tutto è cambiato. Il cuore gli fa male, un male atroce. No, non è un dolore fisico; è una fitta che ogni giorno diventa sempre più dolorosa.
Michele ha una moglie da mantenere. Deve mantenere anche se stesso. Deve assicurare il pane in tavola alla sua famiglia e, da domani, sarà tutto più complicato. Arriva al binario tre, lo stesso dal quale arrivò Rosa, a Natale, disperata perché suo marito l’aveva tradita, e si asciuga una lacrima. Alza la testa e guarda il cielo blu scuro. Si getta in un attimo e l’affettatrice a vapore gli entra in quel cuore che gli faceva male.

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