Gatto randagio
Soltanto a me poteva capitare di avere un gatto così. Ma tant’è, nella vita ci si accompagna con i simili nel temperamento e nel carattere.
Il mio gatto è un randagio, ha vissuto dieci anni di selvagge baraonde tra strade e campagne. Ma anche io ho vissuto dieci anni di avventure fatte di partenze e ritorni. E noi, io e il mio gatto, ci siamo amati nella libertà del nostro reciproco girovagare.
Ogni volta che tornavo mi aspettavo di vederlo comparire con la sua faccia da pirata e ogni volta il randagio tornava mostrando nuove ferite riportate sul suo campo di battaglia. Nemmeno nei momenti peggiori, nemmeno quando i graffi erano profondi e forse anche infetti il mio gatto ha esitato dal condividere con me qualche minuto di fusa e carezze. Nient’altro. Per dieci anni non abbiamo avuto che fugaci incontri fatti di scambi minuziosi di informazioni. Davvero ho raccontato i miei pensieri più profondi a questo gattaccio con l’espressione truce. Lo riconoscevo da lontano, lo vedevo arrivare guardingo e poi sprofondare nella dimensione della tregua che condividevo anche io. Qualche momento di carezze, un istante di riposo prima di gettarsi nuovamente nella brutale mischia dei gatti di strada. L’ho visto tornare affamato, stanco, incredulo lui stesso di ritrovarmi ogni volta.
Sono bravi tutti ad avere un animale domestico, ma per condividere momenti di tenerezza con gli esseri selvatici ci vuole un’anima altrettanto randagia, questo lo so per certo e me lo ha sempre ripetuto la pupilla ferina del suo sguardo da gatto. Non ha mai ceduto alle lusinghe della vita comoda, ha sempre preferito la strada anche nel cuore dell’inverno, anche quando era ridotto pelo e ossa. Non ha mai voluto altro che un po’ di cibo se ce n’era e qualche carezza affettuosa per potersi esibire in un concerto di fusa e in sdolcinate coreografie.
Da qualche anno, le ferite in combattimento sono diventate permanenti e così ha l’occhio destro sempre aperto e l’orecchio sinistro perennemente abbassato. Durante i lunghi mesi del lockdown ci siamo incontrati per strada durante le mie passeggiate esplorative, percorreva chilometri il mio gatto a mia insaputa conquistando sempre nuovi territori. Non so perché ma lo immaginavo, nelle scorribande lontane da casa, come un Alessandro Magno felino pronto a spingersi sempre un po’ più oltre.
Eppure, quando tornava, con il suo miagolio stridulo e con una tonalità da cucciolo si lasciava andare a momenti di pura beatitudine.
Ogni volta che ne perdevo le tracce per più di un mese lo immaginavo defunto da qualche parte senza il conforto di un saluto. Qualche mese fa è tornato molto malridotto mostrando la ferrea volontà di restare. Anche in quelle condizioni di salute disastrate si è imposto sugli altri gatti residenti. Al mattino, appena aprivo le imposte della mia stanza da lavoro arrivava con una urgenza nuova nel miagolio. Entrava furtivo ma sicuro della mia benevolenza e si accoccolava in un angolino del divano in un concerto di fusa. Mi è stato sempre accanto lasciandosi andare a frontiere mai raggiunte di tenerezza. Purtroppo, le sue condizioni di salute erano davvero molto precarie. Forse, tutte e nove le vite da gatto le aveva già spese sul tavolo da gioco della strada quando ha deciso di tornare a casa. Avrei potuto portarlo da un veterinario, farlo curare, sottoporlo a degli esami.
Non ci crederete, ma mi ha detto che preferiva continuare la sua vita così come era sempre stata e non voleva altre cure. Ci siamo salutati, un’ultima volta. La macchina era già in moto, dovevo andare. Sono scesa per un’ultima carezza, un ultimo sguardo. Sapevo, anche se tutto sommato non stava così male, che stava morendo e che quello sarebbe stato il nostro addio. L’ho sentito mentre ero in viaggio trovare un rifugio per spegnere le sue pupille ferine e lasciarsi andare verso il paradiso dei gatti che pure ci dovrà essere. So che è stato felice, che ha vissuto tutto quello che un gatto può vivere, so che ha amato la libertà e so che ha amato, a modo suo, anche me.