Flash sulla barba di Rachelo
Sono giorni che si sente strano. Il dottore ha detto di mangiare cibi che contengano vitamine e proteine, come frutta e verdura, ma non ha capito che Rachelo si sente strano dentro e non fuori.
Oggi è ritornato da lui perché ha bisogno di un calmante, di qualcosa che lo aiuti a dormire: trascorre le notti sempre allo stesso modo e gli sembra di sentire a intervalli brevissimi il suono di cellulari, di notifiche che arrivano, di tweet.
– Dottore, mi aiuti.
Il medico aggrotta le sopracciglia e, mentre lo fissa al di sopra degli occhiali dalle lenti enormi, avvicina la sedia alla scrivania.
– L’aiuterei volentieri se mi dicesse qual è il suo problema.
Per una manciata di secondi, Rachelo ha l’istinto di potersi sfogare con quell’uomo così anziano, dall’aria rassicurante e paterna. È persino in procinto di piangere, poi, scuotendo leggermente il capo, torna in sé.
Deglutisce le sue emozioni.
– Il fatto è, dottore, che mi sento sempre triste. La mia felicità dura talmente poco, che nemmeno mi accorgo di toccarla, di annusarla, di… di viverla!
L’uomo lo guarda con un’aria spiacente, coinvolta, ma terribilmente costruita: dopo tutti quegl’anni di lavoro ed esperienze, deve avere un fornito catalogo delle espressioni da esibire a pazienti particolarmente problematici.
– Capisco. Prego, vada avanti.
Rachelo deglutisce ancora, facendo una smorfia: non ha mai capito perché, ogni volta che parla col dottor Petruzzo, ha una salivazione eccessiva, fastidiosa.
– Mi sento diverso dagli altri. Esco di casa a comprare del prosciutto ed ho sempre le migliori intenzioni: farò una chiacchiera con la cassiera, aiuterò una donnina minuta a prendere un pacco di riso sullo scaffale più alto, sorriderò a un bambino.
Petruzzo sgrana gli occhi: sembra essersi perso.
– Qual è il punto?
Rachelo si gratta energicamente la testa ricciuta.
– Il punto è che, puntualmente, non si verifica nemmeno una delle cose che ho elencato.
Il dottore scoppia in una fragorosa risata; piega la testa all’indietro, sino a guardare il soffitto, poi ritorna a guardare il suo strambo paziente e si fa serio.
– Senta: che non si verifichino queste piccole cose da lei sperate non significa che sia diverso dagli altri. Mi perdoni, ma non la seguo.
Adesso, Rachelo ha voglia di piangere davvero; e non per commozione, ma per rabbia.
– Dottore, a volte credo che sarei dovuto nascere in un’altra era, in un altro pianeta, con compagni di pianeta come me. Io sono diverso. Spesse volte, al parco, mi fermo a chiacchierare con qualcuno: che so, chiedo un fazzoletto, una sigaretta anche se non fumo, una caramella. Lo faccio per fare una chiacchierata, per non stare solo. Beh, vuole sapere cosa accade?
Petruzzo ha congiunto le mani, mentre il capo, spontaneamente, si è spostato verso sinistra: sembra la testa smollata di un bambolotto.
– Cosa accade?
– Che non mi ascoltano. Sono tutti presi dalle loro cose, non mi regalano nemmeno un sorriso e non fanno altro che guardare il loro patetico schermo. Io non credo di star bene. Io credo che dovrei farmi ibernare e…
La risata improvvisa del dottore, che nel frattempo ha preso il suo smartphone, lo ha interrotto. Eccolo lì: rinsaccato, aria da coglione immaturo, punta della lingua passata accuratamente su labbra inferiori e superiori, come se si trattasse di un lucidalabbra costoso, occhi vispi e attenti a fissare il piccolo schermo. Incredibile come, in una manciata di secondi, l’aria professionale di Petruzzo sia scomparsa. Calpestata. Morta e sepolta. Dimenticata da lui stesso e anche da Rachelo: si sforza e, anche se sono passati pochi istanti, proprio non riesce a ricordare il dottor Petruzzo professionale e serio.
– Dottore, io… stavo parlando.
Petruzzo digita velocemente qualcosa sulla tastiera touch-screen; sembra che non lo stia a sentire. La lingua è ancora fuori, le labbra ancora umide, la schiena ancora curva, gli occhi ancora vispi e la risata in agguato.
– Dottor Petruzzo…
Rachelo si alza e raggiunge la porta dello studio, a testa bassa. Una volta credeva che solo quel medico fosse in grado di capirlo. Ma anche lui è come tutti.
Cristo. Ha perduto anche il dottore. Era così paterno, comprensivo, docile. Sembrava l’unico ad avere la capacità di comprenderlo e invece… anche lui schiavo di quel maledetto cellulare.
Cammina per strada e Rachelo non vuole rassegnarsi.
– Non è possibile. Ci sarà qualcuno come me, qualcuno che mi guardi, che mi parli, che mi chieda come stia.
Sospira e cammina, grattandosi la barba folta e scura; ha un piano e vuole metterlo in atto. Adesso.
Si guarda intorno, vede che una signora sulla sessantina sta per passargli accanto e decide di agire: appoggia la schiena a un muro di pietra lì affianco, esibisce l’espressione più triste che gli riesca e si porta la mano alla testa.
– Ah, mi sento male. Aaaah.
La signora aggrotta le sopracciglia e si ferma davanti a lui, con aria seria e preoccupata.
– Ha bisogno di qualcosa? Che succede?
Rachelo cerca di trattenere la sua voglia di sorridere.
– Mi gira la testa. Sa se c’è una farmacia, qui vicino?
La donna gira la testa a destra e a manca.
– Sì, è proprio sulla parallela di questa strada. È di qui?
Decide di fingere, in modo tale che la tizia possa spiegargli la strada e intrattenersi più tempo con lui.
– Ehm, no. Mi trovo qui di passaggio.
Porta la borsetta sul braccio opposto e assume un’aria disponibile.
– Posso accompagnarla, se crede.
Rachelo sorride serafico.
– Ma certo, grazie.
Camminano in silenzio. Di tanto in tanto, si ricorda che deve fingere debolezza e giramento di testa, allora si porta entrambe le mani alle tempie. Questo accade un paio di volte, sino a quando il rumore di un messaggino gli fa sgranare gli occhi. La sessantenne esclama un “Oh!” sonoro e, con una strana luce negli occhi, si ferma, apre velocemente la borsetta e tira fuori il suo I-phone.
Rachelo non riesce a crederci. La osserva mentre scorre l’indice inanellato lungo lo schermo. Scruta quel viso improvvisamente paonazzo, smanioso, esagitato.
– Signora, andiamo… sto male.
– Un… un attimo. Senta, ora prosegua e giri a destra. La farmacia è lì, vicino alle poste.
Affranto, deluso, esterrefatto. Il suono di un cellulare non riuscirebbe a distogliere l’attenzione degli altri nemmeno se sputasse sangue? Nemmeno se si desse fuoco in piazza, nemmeno se si piantasse un coltello in gola, davanti a un bar?
Questo è solo uno dei tanti esperimenti che Rachelo compie, almeno tre o quattro volte al mese. Il risultato è sempre lo stesso: il cellulare vince. Il suono di una notifica di Facebbok, di un tweet, di un messaggio in entrata su Whatsapp vincono su tutto.
Rachelo non sa dove sia nato. Non sa nulla di se stesso. Sa solo che quel mondo non appartiene a lui. Sa solo che se crepasse in mezzo a tutti, a nessuno importerebbe.
Vuole farlo. L’ultimo esperimento. Deve.
Rachelo sul corso principale della sua città, che brulica di gente, ha un coltello con sé. E non ha paura. Si guarda intorno, estrae il coltello dalla tasca profonda della sua giacca a vento e, senza pensare, se lo pianta nello stomaco. Apre la bocca, dalla quale esce un rantolo soffocato. Pessimo esperimento: Rachelo non riesce a vedere come stia reagendo la folla del Corso, nei pressi delle gocce di sangue che, sempre più grandi, macchiano il marciapiede. Non ha tempo di pensarci, perché sente troppo dolore. Vede la sua vita scivolargli via dalle dita, come un’anguilla bagnata. Cade a terra supino, con le mani incollate al manico dell’arnese.
Una folla di persone gli sta attorno. Cinquantadue cellulari che gli scattano foto mentre il sangue inizia a costruirsi un lento percorso sulla giacca a vento azzurrina. Ognuno col cellulare tra le mani, mentre Rachelo, dopo qualche minuto, con la bocca spalancata, alza un braccio verso un ragazzo della folla, l’unico che sembra parlare al telefono, con lo sguardo preoccupato. L’unico che sta chiamando il 118. Vorrebbe ringraziare quel ragazzetto con un cappello da baseball in testa messo al rovescio, ma le parole non gli escono.
Rachelo muore. L’ambulanza arriva con ventidue minuti di ritardo. Si testa se l’uomo sia morto e si cala la barella.
È scesa la notte. La barba folta e scura sul volto di Rachelo diventa a tratti argentata, a causa del flash dei cellulari.