Di vicoli, di scale e di castelli
di Paola Lombardi
Le pietre dissestate, percorse per secoli. I selci disconnessi, le fessure e le crepe sui muri. I passi procedevano incerti sulle anguste stradine intessute di gradini e scale. Qualche ciuffo d’erba tra i massi delle abitazioni addossate l’una all’altra. Il significato profondo del tempo che passa, che feroce consuma, era impresso su ognuno di quelle pietre scoscese e segnate. Impresse nella retina delle case, l’onda dei secoli abbattuta su quel piccolo borgo. Qualche gatto, sparuto testimone di secoli remoti, faceva capolino a tratti tra i vicoli desolati. Nemmeno una figura umana. Nemmeno una fontana né un rumore che non fosse lo stormire dei rami appena sfiorati da un vento leggero.
“Resisti, siamo quasi arrivati”, la tua voce giungeva fino a me da lontano.
Mi precedevi di molti passi, ad ogni svolta nella stradina ricurva temevo di smarrire la tua schiena e perdermi in quello che mi appariva un dedalo incontrollabile di vicoli. Il caldo torrido, la desolazione del paesaggio, i passaggi angusti rendevano ogni passo più difficile. I piedi si muovevano a fatica cercando di fare presa sui sampietrini quasi divelti, le gambe erano pesanti ancorate al terreno come se la forza di gravità fosse più intensa. Qualche cinguettio, qualche trillo di piccoli uccellini nascosti nelle cavità della case abbandonate era il solo richiamo alla realtà. Le lucertole sgusciavano, veloci e sapienti, tra le mura, evitando i nostri passi.
Salire, ancora salire, su ripide scale, sorpresa ad ogni spiazzo che ancora c’erano scale irte e faticose con le quali misurarsi. Ansante finivo con l’addossarmi alla parete di una casa o di una chiesa, nemmeno potevo distinguerle così cadenti e devastate, e il tuo richiamo tornava a sorprendermi: “Avanti, siamo quasi arrivati”. Rinfrancata da quelle frasi sferzanti riprendevo la marcia, il cammino era sempre più faticoso. Alla fine, la scalinata ripida che percorrevo si trasformava in una salita impensabile. Le selci della pavimentazione erano una vaga impronta e la terra aveva avuto la meglio.
Seguivo le curve della stradina quasi sterrata alla fine e mi afferravo alla tua mano finalmente tesa verso di me. Il sorriso largo sul tuo viso che non tradiva il minimo sforzo come fossi un animale abituato alle alture e al caldo: “Guarda”. E involontariamente ho seguito la direzione del tuo volto. Sopra di noi si ergeva un maniero colossale. Una fitta costruzione di pietre enormi.
Un colosso che ci sfidava dall’alto, privo di feritoie, aperture, solo mura difensive che non davano respiro. E appena qualche passo più avanti verso est si apriva una vallata profonda. Sembrava di poter indovinare nella vasta piana, estesa ai nostri piedi, centinaia di piccoli borghi tutti uguali eppure diversi. E io sentivo non lo stupore né la meraviglia ma piuttosto una eterna stanchezza che si posava su di me e che procedeva rapida come le ombre che si affollavano evocate dal tramonto sempre più imminente.