Certe volte
di Tamara Barigaldi
Avevo tre anni quando incontrai Marco per la prima volta. Ricordo che mia madre ricevette la visita di una vecchia amica e che mi costrinse a giocare con un bambino un po’ più grande di me, prepotente e pure un po’ viziato.
Passammo il pomeriggio sul tappeto del salotto, rubandoci i giocattoli a vicenda.
Da quel momento, trascorremmo pomeriggi interi a giocare ai pompieri, alla lotta, alle costruzioni, sotto lo sguardo poco vigile delle nostre madri, intente a chiacchierare del più e del meno davanti a una tazza di the.
Di fatto, eravamo costretti a giocare insieme per permettere alle nostre annoiate genitrici di passare del tempo insieme. Di fatto, fu l’incontro delle nostre madri a scatenare una catena di eventi improbabili che portarono al giorno disgraziato in cui “Alberto la checca finalmente fu messo al proprio posto” come avrebbe detto lui ai suoi amici.
Di quel giorno conservo solo frammenti di memoria, fotografie scattate a caso e che – accostate le une alle altre – forniscono un quadro incompleto ma terribile. Ricordo che Marco indossava una felpa blu ed un paio di jeans sdruciti.
Ricordo che puzzava di quel sudore acre tipico degli adolescenti, che aveva forse cercato di coprire con un deodorante improbabile e buono solo a incrementare l’olezzo.
Ricordo che inizialmente non capii cosa stesse succedendo e, sino alla fine, pensai si trattasse di uno scherzo, dell’ennesima trovata di un teppistello viziato che – ironia della sorte – mia madre adorava e invitava a casa nostra a cadenza regolare.
Ricordo le botte, gli insulti, le spinte, le mie suppliche “Basta! Fermati! Mi fai male, Marco!” che però non scalfirono la determinazione di ferro con la quale aveva deciso di rimettermi in riga. “Lo faccio per te” mi disse a un punto, mentre digrignando i denti spingeva contro e dentro di me senza fermarsi nemmeno un secondo a chiedersi se fosse veramente così “Lo faccio per te e per la tua povera mamma che un figlio checca proprio non se lo merita”.
Fu il sentirlo parlare di mia madre a farmi perdere ogni voglia di lottare, di ribellarmi a quella violenza ingiusta, a quel destino crudele che mai avrei pensato potesse toccare a me. Fu come se il nome di lei, pronunciato da Marco in quel frangente, mi avesse derubato di ogni forza.
Ironia della sorte, fu proprio mia madre a venirmi incontro sul vialetto di casa, l’aria contrariata perché non l’avevo avvertita che avrei fatto tardi. Fu lei che, compresa la reale portata delle mie condizioni, mi abbracciò stretto e non mi lasciò mai la mano. Che mi accompagnò in ospedale, dalla polizia, dalla psicologa. Che tentò di salvarmi anche se non riuscivo a smettere di annegare.
È a mia madre che ho scritto le ultime righe di commiato, sono per lei i miei ultimi sforzi su questa terra, affinché non pensi che sia colpa sua, che avrebbe potuto evitarlo.
Certe volte accade e basta, certe volte non possiamo scappare, fuggire, lottare.
Certe volte non ce la facciamo nonostante gli sforzi e l’impegno. Certe volte.