La mia scuola
La mia scuola non è né grande né piccola, è giusta.
La mia scuola è la più bella, ma lo penso senza dirlo, altrimenti si dispiacciono gli altri bambini.
La mia scuola è in campagna, in mezzo all’erba.
Ci sto bene io e ci stanno bene i miei compagni. Insieme impariamo tante cose e passiamo giorni irripetibili. Le mura esterne sono pitturate di arancione, ma penso che anche le altre scuole siano delle stesso colore.
Ci porta il pulmino, quello giallo, i cui sedili sembrano grandi pure loro. Qualche volta il pulmino deve fermarsi per non investire le pecore o le mucche dirette al pascolo.
Appena arriviamo ci accoglie la bandiera dell’Italia che prende acqua e vento, ma continua a sventolare non curandosi delle stagioni che si alternano al ritmo della vita.
Io sono bravo, almeno così dice la maestra. Eppure ogni mattina apro il quaderno a quadretti nella pagina in cui ci sono le mie lacrime che si sono mischiate all’inchiostro blu, le lacrime versate in quel giorno, l’unico, in cui ho sbagliato le addizioni.
Mi pesa perché non avrei dovuto sbagliare, mi sembra di aver tradito la mia maestra e i miei genitori.
Cerco di non pensarci e prima di entrare mi aggiusto il fiocco bianco sul grembiule blu, ci manca solo che prenda un rimprovero per trascuratezza.
Ma la maestra è buona, è una mamma. Ha il nome di un fiore, si chiama Rosa. Ha la canna di bambù per dare le bacchettate ma lei non la usa mai, almeno con me.
Al centro della stanza c’è la stufa il cui tubo esce dalla parete dove sono posizionati tre grossi finestroni. La maestra ogni giorno d’inverno mette un pentolino sulla stufa e si cuoce una mela. Durante la bella stagione, e per bella stagione intendo la primavera visto che l’estate facciamo vacanza, usciamo fuori e giochiamo con le biglie, quelle di vetro. Siamo bravi, ma qualche volta litighiamo.
Poi quando ricominciamo in autunno, arriva il camion a scaricare la legna. L’autista la ribalta nel piazzale e noi facciamo il passamano. Poco importa che sporchiamo i grembiuli. Alcuni di noi aprono le braccia come se fosse una culla e altri ci appoggiano i tocchetti di legna tagliati a misura per la stufa. Li scarichiamo nel corridoio, la maestra è contenta. Io la guardo fisso e mi accorgo che il suo volto è rugato dal tempo.
Penso al giorno in cui lei non ci sarà più, ma dura un attimo perché mi chiama alla lavagna e mi consegna la sua canna di bambù. Intelligente la mia maestra, ha trasformato l’attrezzo di tortura in qualcosa di utile. Con quella canna io dovrei indicare, sulla cartina adiacente alla parete dirimpetto al tubo della stufa, dove ci troviamo noi, dove è posizionata la capitale e dove si trovano le altre città più importanti. Me la cavo bene e me ne torno soddisfatto al mio posto.
La maestra prende il gesso e scrive qualcosa alla lavagna. Comincia a piovere e a me piace osservare la natura da quei tre finestroni. Le volte in cui li apre lei o la bidella sento l’odore di stalla, ma non mi dà fastidio.
All’ora della merenda scambio il mio pacchetto di cracker con la busta di patatine di Peppino, il mio compagno di banco. Io glielo dico a mamma che voglio le patatine a merenda e Peppino dice alla sua che vuole i cracker.
Per tutto l’anno, però, e non so perché, io e Peppino continuiamo a scambiarci la merenda. Valli a capire i grandi! Poi finisce l’anno scolastico e penso che a settembre ricominceremo. Però il tempo passa e non ricominciamo più.
Oggi, dopo più di quarant’anni, sono tornato nella mia scuola. È rimasto tutto uguale, tranne la stufa e il tubo che non ci sono più.
Manca anche il tegamino con la mela cotta della mia cara maestra, ma quello che più mi dispiace è che non c’è più nemmeno lei. Sono fortunato, però, perché lo posso raccontare, non come alcuni miei compagni che l’hanno seguita. Mi piace pensarli insieme in una valle dove scorrono fiumi di latte e miele mentre giocano a palline e poi raccolgono la legna.
Molti altri di loro, invece, li incontro ancora oggi. Non siamo amici, perché è giusto che ognuno percorra la sua strada, ma ciò che è stato mi riempie il cuore.
Mi resta solo un unico grande rammarico, quello di non essere mai andato, finita la scuola, a chiedere alla mia cara maestra che sapore avesse la mela cotta.