“Il mio posto è con chi non ha voce” dialogo con lo scrittore e giornalista Giacomo Scotti
Rijeka/Fiume, una città, tanti volti, tante storie che si intrecciano nelle quali i protagonisti si trasformano continuamente, cambiano nome e cambiano ruolo.
Una città accogliente e multiculturale che in settanta anni è stata la frontiera della Storia conservando il suo aspetto luminoso e leggero, con le sue architetture che hanno il sapore del mare e l’armonia del Liberty. Sul molo, dove oggi è quasi scomparso il confine del 1924 tra Italia e Jugoslavia, ci viene incontro uno dei protagonisti della vita culturale multiforme della città, Giacomo Scotti.
La generosità del suo sguardo, la curiosità che lo contraddistingue come giornalista e la capacità di leggere la storia contemporanea con la rigorosità di uno scrittore ci affascinano immediatamente. Bastano poche parole per ritrovare un lieve accento partenopeo e per sentire, nella sua stretta di mano, la cordialità del sud.
Giacomo Scotti, nato a Saviano vicino Napoli nel 1928, è tra i giovanissimi che partecipano alla Resistenza. Sul finire della seconda guerra mondiale è a Monfalcone. Il confine con la Jugoslavia è vicinissimo e l’eco delle gesta del maresciallo Tito è grande. Una coscienza politica precisa e la possibilità di vedere concretizzato un ideale sono gli elementi che contribuiscono, insieme ad una buona dose di ribellione giovanile, a far maturare in Giacomo Scotti una scelta: varcare quel confine. Lasciare l’Italia ed essere protagonista del controesodo verso la Jugoslavia.
È in questo Paese in piena ricostruzione, dove si mescolano etnie diverse, che Giacomo Scotti diventa giornalista e scrittore. Negli anni, si afferma come una delle voci più importanti della minoranza italiana e si fa promotore di grandi campagne per la pace e l’integrazione soprattutto durante le guerre che hanno insanguinato i Balcani negli anni ’90.
Giacomo Scotti diventa un punto di riferimento per l’elaborazione di una storiografia della contemporaneità e diventa il portavoce delle testimonianze, altrimenti perdute, degli italiani che, durante la seconda guerra mondiale, sono stati partigiani nell’ex Jugoslavia.
Passeggiare per le strade centrali di Rijeka/Fiume significa ascoltare i racconti curiosi, affettuosi, emozionati di Scotti che ci conduce a Palazzo Modello, sede storica dell’Unione Italiana, dove si svolge l’intervista.
Da giornalista a scrittore, come e perché è avvenuto questo passaggio?
“Il passaggio è stato breve, forse addirittura contemporaneo, non avevo mai fatto né il giornalista né lo scrittore, ma ero soltanto un amico della penna. A differenza di molti che iniziano con la poesia, io ho iniziato proprio con il racconto e le prime cose che ho pubblicato sul giornale, del quale ero uno dei redattori, ‘La voce del popolo’, che ancora oggi esce a Fiume in lingua italiana, erano racconti della mia patria di origine. Subito dopo mi sono dedicato a una poesia che prima non avevo mai coltivato neanche da studente, la poesia per bambini.
Questo impegno è nato per una ragione molto semplice, a Fiume quando sono arrivato nel 1947 si era nel pieno dell’esodo. Bisogna rilevare, però, che a Fiume, l’esodo è durato tredici anni e non pochi mesi come a Pola dove è stato messo in atto un piano prestabilito. E allora cominciavano a mancare maestri elementari, professori, intellettuali.
Bisognava impegnarsi tutti. In particolare in città si stampava ‘Il Pioniere‘ che, in quel periodo, fungeva da libro di testo per le scuole perché non ce n’erano ancora in italiano rispondenti ai programmi jugoslavi. C’era bisogno di raccontini, di poesiuole per l’infanzia la cui scrittura era affidata ai pochi italiani rimasti e ai pochi arrivati con il controesodo. Bisognava impegnarsi.
Noi italiani eravamo rimasti in 10 mila, e dovevamo moltiplicare gli sforzi, l’insegnante era anche capocoro e attivista e anche i giornalisti facevano di tutto un poco, bisognava moltiplicarsi anche intellettualmente. Eravamo tornati all’800 in cui, in tutta l’Europa, gli scrittori erano enciclopedici. Noi l’abbiamo fatto per necessità. Io stesso, alla distanza, ho capito che quelle opere non erano vera letteratura, ma erano un misto di propaganda e di entusiasmo, era il movimento di un Paese che si stava ricostruendo dalla guerra, c’era un po’ di ideologia e molto di entusiasmo. Era una letteratura forse mobilitatrice, ma anche scadente”.
Successivamente la sua opera è stata soprattutto di ricostruzione storica di determinati eventi. Ha prima raccolto il materiale e poi ricostruito le vicende narrate, oppure al contrario è partito dall’idea di voler raccontare determinati episodi e quindi ha cercato il materiale necessario?
“Io sono venuto qui per unirmi a coloro che volevano costruire una società nuova, ma sono rimasto sempre italiano nel cuore e nella mente, ovunque cercavo la presenza degli italiani. Quando mi hanno detto che dopo l’8 settembre del ’43 migliaia di italiani, invece, di arrendersi ai tedeschi avevano combattuto contro i nazisti o da soli o entrando nelle formazioni partigiane, sono stato tra i primi italiani a ricercare documenti, e mi sono messo sulle tracce di questi soldati.
Ho ricercato testimonianze e documenti per tentare di ricostruire le vicende dei militari che avevano combattuto con i partigiani, ad esempio, di coloro che avevano formato la divisione Garibaldi in Montenegro e in Slovenia, dei componenti della Triestina d’assalto, addirittura, ho scoperto che, al confine tra l’Ungheria e la Serbia, dalla liberazione di due campi di concentramento si sono formate due brigate che hanno combattuto poi insieme ai battaglioni italiani sparsi formando la Divisione Italia.
Quando è morto Tito tutti quelli che avevano combattuto con lui hanno partecipato ai funerali, ebbene c’erano 48 bandiere italiane, 1 bandiera austriaca, 2 battaglioni cechi. Le altre erano tutte italiane. Ai funerali c’era anche il Presidente italiano Pertini che baciò la bandiera tricolore con la stella rossa lasciandosi scappare una lacrima. Quarantamila italiani hanno combattuto nelle divisioni di Tito.
Di fronte a quella scena mi venivano le lacrime agli occhi. Un italiano come me che sapeva scrivere e che voleva scrivere non poteva tirarsi indietro. Ho cominciato a raccogliere il materiale e ne sono venuti fuori una decina di volumi dedicati alla presenza di italiani nell’ex Jugoslavia. Sono libri storici perché si basano su documenti reali che altrimenti sarebbero andati perduti, ma lo stile è diverso. Io voglio narrare le cose basandomi sui documenti, ma non come farebbe uno storico, il mio è un racconto giornalistico. Dietro il racconto storico c’è il giornalista che usa uno stile che possa essere capito da tutti”.
Nella sua scrittura si intuisce una grande partecipazione umana e anche un forte senso critico.
Sono stato il primo a criticare certe cose, c’era ancora il sistema socialista ancora in piedi, anche durante le operazioni partigiane in Istria sono stati fucilati alcuni comandanti italiani perché non avevano ubbidito agli ordini. Addirittura dopo l’uscita dei miei libri, alcuni che erano ancora vivi, sono stati richiamati e uno è stato punito e cacciato dall’esercito. Io non ho subito conseguenze.
Ho fatto invece un mese di carcere perché in un articolo ho preso in giro la polizia. C’era una frase in cui dicevo: ‘in una Fiume che è stata ungherese, croata, italiana e jugoslava’. Per questa frase sono stato censurato perché la città era solo croata e jugoslava, il prima non poteva esserci. Per molte critiche storiche e politiche non sono mai stato punito anche se sono sempre stato nelle retrovie”.
Una delle sue opere più famose in Italia è Goli Otok, come è nata l’idea di scrivere questo libro?
“Mentre ero in tram incontrai un mio grande amico. Era stato un fervente antifascista in Italia, tanto da essere confinato insieme a Sandro Pertini, e poi aveva combattuto con Tito ed era rimasto in Jugoslavia. Nell’immediato dopoguerra era sparito. Per tanto tempo avevo chiesto di lui e la moglie mi aveva detto che era a Sarajevo per costruire la ferrovia. Dopo tanti anni, eravamo ormai all’inizio degli anni ’80 e il sistema comunista stava iniziando a spezzarsi, lo incontrai per caso.
Mi raccontò la verità. Era stato condannato al lavoro coatto sull’isola di Goli Otok.
Mi impegnai a scrivere la sua storia e lui mi garantì che avrebbe testimoniato senza tirarsi indietro. Il racconto della sua storia è stato pubblicato sulla rivista Panorama.
Da quel momento, iniziarono ad arrivarmi lettere di altri prigionieri. Ogni giorno ricevevo testimonianze di confinati. Per quarant’anni erano stati costretti a mantenere il segreto e di Goli Otok nessuno aveva saputo niente. Le lettere si sono trasformate in racconti che ho iniziato a pubblicare a puntate sul giornale. La forza di questa vicenda storica attrasse la curiosità soprattutto in Italia. Arrivò un regista di Trieste che mi chiese di aiutarlo perché intendeva realizzare un film sull’accaduto che uscì nell’89, nei titoli di coda ci sono i nomi di tutti coloro che hanno contribuito alla pellicola fuorché il mio nome. Poi su interessamento di un editore italiano, ho raccolto tutte le testimonianze in un unico volume “Goli Otok”.
Questo libro, in particolar modo in Italia, è stato elogiato dalla destra che lo ha letto come una denuncia al sistema comunista. In realtà non è così. Non ho parlato dei crimini del comunismo, perché i confinati erano coloro che avevano manifestato delle posizioni filosovietiche vicine a Stalin.
Per un anno Tito aveva lasciato che si esprimessero, ma ad un certo punto, quando si rese conto che la Jugoslavia era circondata dalle truppe sovietiche che avrebbero potuto occupare il paese come avevano fatto in Ungheria e in Cecoslovacchia decise di agire, mettendo a tacere tutti coloro che erano favorevoli ad una annessione della Jugoslavia al blocco sovietico. Per evitare l’occupazione armata del Paese ha agito. Ritengo che i metodi siano stati sbagliati, ma non il fine, perché i cosiddetti cominformisti e stalinisti vennero umiliati, schiavizzati, offesi nel corpo e nella dignità umana. Insomma furono applicati i peggiori metodi stalinisti per combattere lo stalinismo. Penso che avrebbe potuto rendere inoffensive le voci dissidenti in altro modo.
Comunisti o non comunisti ho sempre denunciato le ingiustizie. Questo è stato sempre il mio scopo: condannare il male. La mia ideologia è quella di difendere i deboli e gli emarginati ovunque essi siano. Certo la mia è una ideologia di sinistra e lo sarà sempre, ma non è un partito preso. Bisogna difendere chi non può difendersi. Dare voce a chi non ha voce. E’ sempre stato così per me. Durante l’ultima guerra nei Balcani ho scritto “Non si trova il cioccolato”, le testimonianze dei bambini profughi che scappavano e che rimpiangevano la cioccolata. Con quel libro ho dato voce ai bambini perché erano, in quel momento, i più deboli e i più indifesi.
Sono finito sempre dalla parte sbagliata, la destra mi ha sempre attaccato e anche la sinistra perché non sono in linea con il partito del momento, ma cosa posso fare? Posso cambiare ad 87 anni? Non ci penso neppure. Voglio morire ‘umanista’, per usare una definizione che ho scritto nelle mie opere, come ho sempre vissuto”.
C’è un suo libro che ha fatto molto discutere in Italia, ‘Dossier Foibe’.
“La scelta della Giornata del ricordo, che cade il 10 febbraio, è una data sbagliata perché è la giornata in cui la comunità internazionale, di tutti i Paesi che hanno combattuto contro il nazismo, ha stabilito i nuovi confini della Jugoslavia, già stabiliti dai fatti peraltro con la differenza che i partigiani erano arrivati fino a Trieste.
Scegliere la data del 10 febbraio significa rinnegare il trattato di Pace di Parigi, significa dire di volere riportare i confini a quelli stabiliti da Mussolini, significa voler riaffermare l’aggressione alla Jugoslavia nel 1941, significa porsi dalla parte del fascismo. Si ricordano le foibe, l’esodo e delle tristi vicende del confine orientale non se ne parla. Di 400 mila civili fucilati nei due anni di occupazione italiana del Montenegro, della Dalmazia e della Slovenia, di questo non se ne parla. Il dolore degli altri non si vuole vedere. Si vogliono cancellare i crimini del fascismo.
Chi sono i barbari? Gli slavi? Chi ha occupato queste terre? E’ vero che c’è stato un esodo di 180 mila persone, ma nelle lapidi si scrive un numero che supera i 300 mila.
Tra gli esuli, inoltre, ci sono almeno 50 mila slavi che non volevano restare tra i comunisti di Tito. Ai circa 50.000 slavi che non vollero restare,vanno aggiunti circa 40.000 italiani non istriani, fiumani e dalmati, insomma non autoctoni, che erano stati inviati o erano venuti nelle terre conquistate dall’Italia nella prima guerramondiale come venditori ambulanti, coloni-agricoltori, impiegati statali nelle scuole, nei Comuni, nei catasti, nelle banche, nei consorzi eccetera, e guardie forestali, guardie di finanza eccetera che dopo il settembre ’43 o dopo il maggio ’45 semplicemente se ne tornarono ai paesi natali per lo più nell’Italia meridionale.
Analizziamo i numeri: le tre province passate alla ex Jugoslavia, e oggi alla Slovenia e alla Croazia, non contavano nemmeno 400 mila abitanti, di questo numero si deve rilevare che il 45 per cento della popolazione era slava anche secondo i censimenti dei prefetti fascisti. Non nego l’esistenza delle foibe, ma sul sangue di questa gente hanno approfittato per portare voti al Msi prima e agli altri partiti di destra in Italia.
Non si possono mettere tra gli infoibati anche coloro che sono caduti combattendo sul confine qui a Fiume, o al limite di Zara o di Gorizia. I nomi di quei caduti sono negli elenchi degli infoibati, e ci sono anche i nomi di persone morte a novant’anni a casa propria. Non si può con la menzogna fare la storia! Andiamo a vedere cosa sono state le foibe, è un grande dolore comprendere che le foibe nel ’43 sono state il prezzo della vendetta verso gli italiani.
Il dolore deve essere ricordato. C’è una signora che vive nel mio palazzo che mi ricorda sempre che ha perso 8 fratelli uccisi dagli italiani. Questo è quello che ho voluto dire attraverso i miei scritti: ricordiamo anche il dolore degli altri. Anche gli italiani hanno le loro colpe. Il Montenegro è stato raso al suolo dalle truppe di occupazione fasciste. Perché dobbiamo farci conoscere da bugiardi? Andiamo avanti con la nostra civiltà.
La cultura fa conoscere l’Italia in tutto il mondo, non l’odio. E invece in Italia, c’è gente che ancora oggi odia gli ‘sciavi’ e non vuole vedere cosa hanno fatto gli italiani che sono rimasti qui, una minoranza che è sopravvissuta ed è andata avanti soltanto grazie alla capacità di saper convivere con gli altri e non con l’odio verso gli altri.
A Fiume ci sono dodici minoranze riconosciute che convivono da sempre e proprio questa capacità di saper convivere pacificamente ha fatto sì che durante la guerra civile l’unico spazio per accogliere i profughi, circa mezzo milione, sia stato questo. Conoscere gli altri, la loro lingua, la loro cultura è il solo mezzo per andare avanti insieme nella convivenza e nella pace. Facciamo tacere l’odio e non facciamo la storia con le menzogne”.
Rijeka, settembre 2015
foto di Antonio Nardelli