Il giorno dei morti
Già dal Giorno dei Santi a casa nostra si liberava il piano del comò e sopra vi si appoggiavano i ritratti dei cari defunti. Davanti a ogni ritratto si metteva un lumino e per tutti qualche fiore.
Erano pochi i ritratti quando ero bambina: nonna Achenza, la madre di mio padre che era morta quando lui aveva solo quattordici anni, col volto severo, senza un sorriso, come si conveniva davanti al fotografo, un estraneo; zia Filomena che aveva fatto da madre a lui e soprattutto alle mie zie che erano ancora piccole, lo zio Fedele che era morto giovane, ma di cui non ricordo bene la storia né i legami di parentela; la foto di Vittoriedda, la figlia del fratello di mamma, morta a soli quattro anni, credo di tifo.
Il due novembre si accendevano i lumini e sostavamo davanti a quell’altare con i suoi fiori e le sue luci. Non mi faceva paura, anzi era bello ascoltare mia madre raccontare le storie di quelle persone, anche se erano quasi tutte della famiglia di mio padre che era parco di parole e cedeva volentieri a mamma il ruolo di narratrice, ruolo in cui lei era sempre bravissima.
Ed ecco che nonna, zia, la cuginetta, non erano più tristi figure in bianco e nero un po’ seppia ma prendevano vita, ci sembrava di vederle nelle loro case, al lavatoio, per le strade di quel paese dove io e mia sorella ancora non eravamo state. E di vedere mamma e babbo ragazzi (lo erano ancora quando si erano fidanzati) e nonna Michela che stava con noi e aveva i capelli bianchi la vedevamo giovane e bellissima coi capelli lunghi e neri e gli occhi blu che avevano fatto perdere la testa a nonno Pani (la testa poi lui l’aveva persa ancora tante volte, dietro a una donna o a un sogno tutto suo; anche se ogni tanto, insperato, riappariva).
“I morti non sono mai morti”, recita una poesia africana. Ed era così che sentivamo.
E poi c’era la collana di castagne bollite e di mele che trovavamo la mattina al risveglio. Io delle mele ne avrei fatto anche a meno, mia sorella invece ne è sempre stata ghiotta. Gruppi di castagne intervallati da qualche mela, il tutto infilato su uno spago con un ago da lana bello grosso. Ufficialmente dono dei morti, nella realtà preparate da mamma e nonna mentre pensavano che noi dormissimo. E con quelle collane appese al collo ci pavoneggiavamo per strada dove se ne vedevano poche o niente. Non era usanza dell’isola, modellata da troppi passaggi; era cosa da entroterra, di quel Logudoro da cui i miei erano arrivati. Come lo erano i papassini, i dolci immancabili per quelle ricorrenze, farina, strutto, un uovo o niente, lievito, zucchero, uva passa, noci… a forma di rombi con la glassa e i diavoletti colorati sopra. Nel tempo è sopravissuta la collana, arrivata fino ai miei figli; sono sopravvisuti i papassini. Almeno finché nonna e mamma ci sono state. Nonna ha raggiunto gli altri sul nostro altare quando avevo solo cinque anni, e non avrei voluto. Come non avrei voluto che negli anni si aggiungessero le zie, gli zii, la mamma e il babbo. E non importa quanti anni avessero: il dolore non ha età e nemmeno il ricordo. Su quell’altare ora c’è gran parte della mia vita.
Su quell’altare ho dovuto far posto per gli amici che non dovevano ma sono andati via troppo presto. C’è un lumino e un fiore anche per loro: per Marisa, per Roberto, per Mimmo, per Abu… Perché agli amici non si dice addio.
E poi c’è un altro altare, senza fiori né luci, senza rimpianti ma non senza dolore. Cornici vuote, fatte di assenza, di perdita; volti ancora in vita ma non nella mia.
È il cimitero più triste, quello dell’abbandono.