Il piccolo evasore
Pasqualino salutò con la mano lo zio Augusto come se stesse partendo per un lungo viaggio. Sorrise e si lanciò deciso lungo lo scivolo. Atterrò con il sedere per terra, proprio nel momento in cui la guardia comunale gli si parava davanti a gambe divaricate. Si fece piccolo piccolo, ma talmente piccolo da dimostrare la metà dei sette anni che aveva. “Il bambino non può giocare”, disse la guardia con un tono che non ammetteva repliche. “Che significa?” chiese zio Augusto allibito. Gli altri bambini che giocavano nei dintorni smisero all’unisono di schiamazzare e anche gli adulti presenti rimasero in decoroso silenzio in attesa degli eventi. La guardia informò il malcapitato zio che, nell’ultimo consiglio comunale, era stata approvata la legge che negava la mensa scolastica, il teatro comunale, gli impianti sportivi e il parco giochi a coloro che non erano in regola con le tasse. Un buco di bilancio di centomila euro era decisamente troppo per un comune di 1500 anime e, per tale motivo, il sindaco sarebbe stato irremovibile: le tasse le dovevano pagare tutti coloro che usufruivano dei servizi. Augusto pensò alla sua povera sorella Genoveffa e al marito Giuseppe, indietro di brutto con Tari e Tasi. Lui, rimasto senza lavoro, arrangiava qualche giornata come muratore, lei faceva le pulizie quando qualcuno si ricordava che bastava poco per regalare un barlume di speranza a una mamma di famiglia. I due coniugi si volevano bene, ma se è vero che non di solo pane vive l’uomo è altrettanto vero che il pane non può mai mancare. E ora facevano fatica a portare a casa quel tanto che bastava a rendere dignitosa la loro esistenza. Augusto faceva quello che poteva, pure lui non è che navigasse nell’oro. Era scapolo però, e in tempi di crisi partiva avvantaggiato. Intanto Pasqualino cresceva in fretta, aveva già capito che tasse o non tasse lo scivolo sarebbe stata una parentesi. Si avviò a testa bassa verso casa, mano nella mano con l’imbarazzato zio Augusto.
“Tuo padre non paga le tasse, tuo padre non paga le tasse…” Questa fu la cantilena con la quale alcuni compagni accolsero Pasqualino l’indomani a scuola. La maestra rimproverò quei discoli e si affrettò a spiegare cosa fossero le tasse e come funzionavano. E pensare che Pasqualino credeva, fino a quel momento, che le tasse fossero le femmine del tasso, il simpatico animale che si fa i fatti suoi. Di ritorno da scuola, il piccolo evasore corse nella sua cameretta, prese il salvadanaio a forma di porcellino e lo soppesò. Il tintinnio dei centesimi gli rilevò che era pieno all’incirca per la metà. L’unica volta che era riuscito a riempirlo interamente ne aveva ricavato una quindicina di euro. Avrebbe voluto portarlo alla guardia per potersi pagare le giostre, ma proprio in quel momento rientrò la mamma. La sua mamma, scapigliata e preceduta da un alone di detersivo. Le andò incontro, l’abbracciò e le porse il porcellino. “Tieni mammina”, le disse “sono per le tasse”.